Il terremoto catastrofico dell’Italia centro-meridionale: 5-30 dicembre 1456

Il terremoto ha coinvolto quasi tutta l’Italia centro-meridionale, dunque l’area di danneggiamento ha attraversato settori geologicamente molto differenti tra loro
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In occasione delle scosse associate al grande terremoto che, nel dicembre 1456, sconvolse l’Italia centro-meridionale, l’INGV ha presentato una trattazione a cura di Umberto Fracassi, suddivisa in due parti. La prima è stata pubblicata oggi, 5 dicembre, verosimile data della prima grave scossa; la seconda verrà pubblicata il 30 dicembre, in occasione della presunta seconda grave scossa.

Nella storia sismica d’Italia, i cui ultimi 2000 anni circa sono descritti dai cataloghi sismici (Guidoboni et al., 2018; Rovida et al., 2022), ricorrono con una certa frequenza scosse molto forti, finanche distruttive, ravvicinate nel tempo e nello spazio all’interno di una sequenza. Ad alcune di queste è stato dato, nel tempo, il nome più o meno informale di ‘crisi sismiche’, teso ad indicare un lasso di tempo circoscritto, da pochi giorni a poche settimane o mesi, in cui viene rilasciata una grande quantità di energia sismica all’interno di un’area ben identificata, alle volte abbastanza ampia. Ad esempio, l’area può coincidere con un settore di una catena montuosa, visibile o meno che sia ad occhio nudo. Quest’ultimo dettaglio non è trascurabile poiché, oltre alle catene montuose che conosciamo, anche tramite l’esperienza diretta alla portata di tutti (in Italia, le Alpi e gli Appennini), alcuni settori delle catene montuose possono essere in parte attualmente sommerse da centinaia o migliaia di metri di sedimenti accumulati nel tempo geologico “recente”, oppure in mare aperto. Questa condizione, comunque, non influisce sulla loro possibilità di ospitare strutture potenzialmente capaci di generare terremoti.

I cataloghi che racchiudono la sismicità storica (e strumentale) del territorio italiano elencano alcune di queste sequenze sismiche piuttosto eccezionali per estensione dell’area interessata e per le magnitudo delle scosse principali. Anche se forse si contano sulle dita di una mano, queste ‘crisi sismiche’ sono una caratteristica interessante e, per certi versi, sorprendente della sismicità nel nostro Paese. Nei limiti della completezza disponibile (ovvero la disponibilità di informazioni sui terremoti del passato), i cataloghi storici ci riportano varie sequenze sismiche e 4-5 di queste furono particolarmente distruttive, estese e lunghe:

  • quella del settembre 1349, a cavallo tra Lazio, Abruzzo e Molise;
  • quella del dicembre 1456, che ha colpito una vasta area tra Puglia, Campania, Molise e Abruzzo;
  • quelle del 1638 e del 1783, che hanno devastato con numerose scosse la Calabria;
  • a cui forse si può aggiungere quella del 1693, che devastò la Sicilia orientale.

Queste sequenze, in qualche modo eccezionali per portata e per ripetuta distruttività, pongono vari ostacoli al loro studio: ad esempio, l’età di accadimento. Diversamente dai terremoti registrati in epoca recente o da quelli avvenuti negli ultimi 2-3 secoli (ovvero con possibilità di documentazione tendenzialmente completa), alcune di queste ‘crisi sismiche’ si sono verificate in epoca medioevale, ponendo non pochi problemi nella reperibilità di fonti accettabili sul piano storico (ovvero, redatte da autori contemporanei, in grado di riferire fatti documentati e suffragate da testimonianze dirette). Non è, infatti, solo o necessariamente una questione di “antichità” delle fonti; la Colonna di Marco Aurelio (anche detta “Antonina”) a Roma, ad esempio, risale al 193 d.C. e, sebbene decisamente antica, è un “documento” di rara ricchezza e forse non tutti sanno che proprio questa eccezionale colonna – come altri monumenti romani, tra cui naturalmente il Colosseo – reca ben visibili i segni di vari terremoti del passato (Funiciello e Rovelli, 1998).

Non di rado, il problema è reperire fonti storiche non solo ben conservate e leggibili ma soprattutto affidabili sul piano dei contenuti (Guidoboni e Ferrari, 2004; Fracassi e Valensise, 2007). Difatti, mentre i terremoti che accadono oggi sono registrati in tempo reale e con strumenti altamente moderni (in Italia, dalla Rete Sismica Nazionale) che misurano l’energia rilasciata da un evento sismico, dei terremoti del passato conosciamo solo gli effetti sull’ambiente, sulla popolazione e sul patrimonio storico-architettonico. Non sono dati di poco conto e, anzi, sono preziosissimi per valutare e quantificare l’impatto dei terremoti sul territorio ma la differenza è sostanziale. Nel tempo sono stati affinati vari criteri per ottenere una stima di magnitudo dal quadro dei danni (ad esempio, Bakun e Wentworth, 1997; Gasperini et al., 1999; Pasolini et al., 2008), da associare ai terremoti presenti nei cataloghi sismici di cui sopra. Queste stime dipendono sicuramente dall’affidabilità delle fonti storiche contemporanee ma anche dalle caratteristiche intrinseche del terremoto, dalla gravità dei danni causati e dallo sviluppo della sequenza sismica. Le ragioni sono intuibili: un’articolata sequenza sismica con più scosse, anche forti, a distanza di pochi giorni o settimane, se non descritta in dettaglio dalle fonti originarie potrà apparire al ricercatore odierno come una sola scossa, anche sorprendentemente estesa per effetti. Come se non bastasse, anche ove una scansione temporale delle varie scosse sia stata ricostruita, discriminare il contributo di una scossa dall’altra, magari accaduta a poca distanza spaziale e temporale dalla prima, fatalmente può comportare un cumulo di effetti più o meno dannosi sul territorio, a tal punto che stimare le magnitudo delle singole scosse può diventare un esercizio estremamente complesso e, per certi versi, sfuggente.

Questa serie di circostanze si è indubbiamente verificata con la sequenza del dicembre del 1456, che ha coinvolto diverse aree dell’Appennino centro-meridionale, dall’alta Irpinia all’entroterra napoletano, dal Sannio al Molise ed all’Abruzzo centro-meridionale, oltre a vari settori della Puglia (Figura 1). La vastità dell’area colpita, come si deduce dalle distribuzioni dei danni ricostruite nel tempo dai vari autori, è sorprendente, quanto lo è l’entità dei danni massimi, sino all’XI grado della scala Mercalli. Anche il numero di vittime, stimato fra le 30.000 e 70.000 (Guidoboni et al., 2018), è enorme, sia in assoluto che se rapportato alla densità abitativa dell’epoca che, naturalmente, non è confrontabile con quella odierna (Cozzetto, 1986; Malanima, 2003; Guidoboni e Ferrari, 2004)

Figura 1: Distribuzioni dei danni causati dalla sequenza sismica del 1456 redatte da vari autori (adattate). (a) Dati originali riportati in Magri e Molin (1983); (b) studio di Meletti et al. (1988); (c) revisione condotta per una versione del Catalogo dei Forti Terremoti in Italia (dati da Boschi et al., 2000). Per una versione aggiornata delle conoscenze: http://storing.ingv.it/cfti/cfti5/quake.php?B0413IT (Guidoboni et al., 2018). Per semplificare la lettura, le intensità sono riportate in numeri arabi (es., 7.5) invece delle cifre latine comunemente adottate per questo scopo (es., VII/VIII) seguendo la scala Mercalli (per la precisione, Mercalli-Cancani-Sieberg). Da: Fracassi e Valensise (2007).

Avendo coinvolto quasi tutta l’Italia centro-meridionale (Calabria esclusa), l’area di danneggiamento ha attraversato settori geologicamente molto differenti tra loro, anche se sostanzialmente concentrati lungo l’asse appenninico (Figura 2). D’altra parte, una caratteristica che salta immediatamente all’occhio, anche per il comune osservatore, è non solo l’estensione dei danni nella direzione “appenninica”, ovvero da sud-est verso nord-ovest, ma anche, in alcune aree, trasversalmente ad essa, con una direzione approssimativamente da ovest verso est. Queste peculiarità hanno varie ricadute, ad esempio:

  • l’orientazione e le dimensioni delle strutture geologiche ovviamente non sono “infinite” ma limitate proprio dal contesto geologico e tettonico di una data area. Lo sviluppo peninsulare del territorio italiano, che naturalmente è stretto e oblungo, agisce quindi da vincolo decisivo nel giustapporre domini geologici distinti, oggi ‘ravvicinati’ in seguito allo sviluppo delle catene montuose e, nello specifico, dell’Appennino (ad es., Malinverno e Ryan, 1986; Wezel, 1986);
  • le caratteristiche di questi domini geologici possono condizionare, entro alcuni limiti ed in funzione della scala, la distribuzione dei danni causati da un terremoto così forte, specialmente avendo investito un’area così estesa e territorialmente diversificata. Inoltre, queste caratteristiche possono attenuare o far risaltare gli effetti di una scossa in funzione della geologia locale.
Figura 2: Schema geologico dell’appenino centro-meridionale (da Butler et al., 2004, modificato). Da ovest verso est: la piattaforma carbonatica Appenninica, di età Mesozoico-Paleogenica (retropaese), il bacino pelagico del Lagonegro, di età Mesozoico-Neogenica, e la piattaforma carbonatica Apula, di età Mesozoico-Paleogenica (avampaese). Ad est del fronte appenninico esterno, il bacino del Bradano-Candela (avanfossa) contiene depositi terrigeni di età Plio- Quaternaria. I distretti vulcanici sono concentrati lungo la costa tirrenica, ad eccezione del complesso estinto del Vulture, situato nel cuore dell’Appennino meridionale, nei pressi del fronte esterno. Da: Fracassi e Valensise (2007).

Proprio l’ampiezza dell’area coinvolta dalla sequenza del dicembre 1456 fa risaltare anche le differenze sensibili nei tipi prevalenti di sismicità nel settore centro-meridionale della penisola (Figura 3). Difatti, mentre il settore appenninico sensu stricto, almeno nella sua parte centro-meridionale, mostra una prevalenza di cinematica (ovvero di meccanismo deformativo) per faglia normale, il settore orientale mostra una prevalenza di cinematica per faglia trascorrente, sia pur con varie complessità ed a profondità ipocentrali tendenzialmente maggiori. Questa differenza, piuttosto marcata e poco evidenziata sino al 2002, quando i terremoti del 31 ottobre e 1 novembre distrussero la scuola di San Giuliano di Puglia (CB), testimonia meccanismi che si sono dimostrati utili per contribuire ad interpretare la sequenza del dicembre 1456.

Figura 3: Terremoti storici e strumenti di magnitudo ≥ 4.0 che hanno riguardato l’Italia centro-meridionale (l’elenco dei dati è reperibile in Fracassi e Valensise, 2007). I quadrati (proporzionali alla magnitudo) rappresentano le scosse dal catalogo dei terremoti storici (Rovida et al., 2022); le “beachballs” indicano il meccanismo focale dei terremoti strumentali. I quadrati scuri indicano la localizzazione delle scosse principali del 1456 (Gruppo di Lavoro CPTI, 2004); per un aggiornamento su questi dati: https://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/eq/14561205_0000_000 (Rovida et al., 2022). Da: Fracassi e Valensise (2007).

Dopo i primi studi sulla sequenza del dicembre 1456 e sulla complessità delle fonti disponibili (Magri e Molin, 1983; Meletti et al., 1988) ed in seguito ad alcune elaborazioni (Teramo et al., 1999), sono state condotte analisi per aggiornare le fonti storiche e per rivisitare i dati territoriali ed i parametri macrosismici che se ne potevano estrarre (Guidoboni e Ferrari, 2004; Guidoboni e Comastri, 2005). La somma di questi sforzi, distribuiti nel tempo e, come detto in apertura, resi tutt’altro che facili dalla natura stessa dei dati storici, ha portato ad una revisione del quadro dei danni (Figura 4), riportata e discussa successivamente (Fracassi e Valensise, 2007). Ne sono emersi vari punti salienti, alcuni sorprendenti. Per prima cosa, si è visto che nelle aree dove sono concentrati i danni maggiori, questi ultimi sono stati complessivamente più estesi e, in definitiva, “più forti” di quanto ritenuto in precedenza. Questo ha contribuito a restituire l’ampiezza enorme dell’area di danneggiamento e a rinforzare gli interrogativi su come spiegare questa peculiarità.

Figura 4: Distribuzione cumulativa di tutti i dati di intensità (vedi legenda in alto a destra per i danni) causati dalla sequenza del 1456. Si noti la regione molto ampia dove vengono riportate intensità ≥ X, ovvero il Sannio (ad est di Benevento), a nord-est del massiccio del Matese (tra Isernia e Campobasso) e nel versante nord-occidentale della Maiella. Da notare anche la peculiare distribuzione dei danni (da intermedi a bassi) riportati lungo la costa Adriatica, il gruppo di intensità elevate (≥ IX) tra il Sannio, l’Irpinia e la Capitanata e quelle nella Piana Campana. In Figura 5 ci sono i dettagli delle tre aree che hanno riportato i massimi danni. Da: Fracassi e Valensise (2007).

Come conseguenza, uno sguardo dettagliato sulle tre aree dove furono documentati i danni maggiori e più estesi, incrociato con il quadro degli insediamenti dell’epoca, ha confermato una sostanziale separazione tra queste tre zone che, seppur piuttosto distanti lungo l’Appennino centro-meridionale, sono pur sempre adiacenti da sud verso nord (Figura 5). A questo proposito, c’è un particolare che il lettore troverà interessante e, in fondo, per niente sorprendente. Gli studi storici (es. Cozzetto, 1986; Guidoboni e Ferrari, 2004) hanno dedotto la rete insediativa del Basso Medioevo, tra le altre cose, anche in base alla distribuzione dei ‘fuochi fiscali’, ovvero dalle zone di provenienza dei tributi. Per capirci: se un ‘fuoco fiscale’ era identificabile successivamente ad un grande terremoto, ciò significava che la zona non aveva subito effetti degni di nota. Ma, incrociando diverse fonti storiche, gli studi hanno mostrato anche che, ove un ‘fuoco fiscale’ non fosse più identificabile, questo non andava preso necessariamente come segno della distruzione della zona in seguito alla scossa. Tutto questo tenendo conto che, naturalmente, all’epoca non era possibile né “localizzare” un terremoto come possiamo fare oggi, né conoscerne gli effetti se non dopo giorni o settimane (o mesi). Ieri come oggi, insomma, ciò che veniva dichiarato andava poi verificato… Se a questi elementi si aggiunge il fatto che nel 1456 l’unità d’Italia era ben lontana dal realizzarsi (oltre quattro secoli) e che nei territori coinvolti le comunità, le amministrazioni ed i poteri dominanti si esprimevano e comunicavano, anche formalmente, in varie lingue oltre l’italiano (a cominciare dal tardo latino, ovviamente, e poi francese, spagnolo, etc.), si ha un’idea delle complessità insite nelle fonti che gli storici hanno dovuto affrontare per distinguere gli elementi concreti da quelli non affidabili.

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