Eni sigla nuovo accordo per l’energia da fusione: “offre grandi quantità di energia pulita”

L’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico sarà un vero game changer nel percorso di decarbonizzazione poiché permetterà di generare grandi quantità di energia in modo sicuro, virtualmente illimitato e senza alcuna emissione di gas serra
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Eni e Commonwealth Fusion System, spinout del Massachusetts Institute of Technology, hanno firmato un nuovo accordo di cooperazione con l’obiettivo di accelerare l’industrializzazione dell’energia da fusione. Commonwealth Fusion Systems è uno spin-out del Massachusetts Institute of Technology finalizzato ad accelerare l’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico: la società ha infatti una delle roadmap più sfidanti a livello mondiale per portare all’industrializzazione l’energia da fusione. Consapevole del grande valore strategico della fusione e della solidità del progetto di innovazione tecnologica, Eni ha investito per la prima volta in CFS nel 2018 e ne è azionista strategico attraverso Eni Next, società di corporate venture capital del gruppo. Il 9 marzo 2023 le due società hanno siglato un nuovo accordo di cooperazione per accelerare ulteriormente lo sviluppo industriale di ARC, il primo impianto in grado di immettere in rete energia da fusione”, si legge in una nota di Eni.

“In questo impegno congiunto, in particolare, Eni mette a disposizione la propria esperienza ingegneristica e di project management. L’intesa prevede anche una serie di progetti attualmente in fase di sviluppo che includono il supporto operativo e tecnologico per lo sviluppo e l’esecuzione, la condivisione di metodologie mutuate dall’industria energetica e la gestione dei rapporti con gli stakeholder”, continua la nota.

 

Sinergia tra scienza e industria

“Nata come start-up da un gruppo di ricercatori e scienziati provenienti dal MIT, CFS ha creato una forte connessione tra il sapere scientifico e il dinamismo delle aziende istituendo una collaborazione con il Plasma Science and Fusion Center del MIT e con i principali gruppi di investimento privati di rilevanza mondiale. Eni è azionista strategico e collabora attivamente con CFS per accelerare l’industrializzazione dell’energia da fusione, oltre a far parte del Consiglio di Amministrazione e ad assicurare il proprio contributo anche in termini di risorse e know how industriale. Inoltre, Eni è stata la prima compagnia del mondo dell’energia tradizionale a sostenere la ricerca in questo settore strategico per la decarbonizzazione. Per arrivare in tempi brevi alla progettazione e realizzazione di un primo impianto per la produzione di energia netta da fusione, Commonwealth Fusion Systems conta su un team internazionale e multidisciplinare di esperti nell’ambito della fisica dei plasmi, dello sviluppo dei magneti a superconduzione, dell’ingegneria industriale e delle catene di fornitura e distribuzione dell’energia. Il primo obiettivo è arrivare a costruire e testare entro il 2025 il primo impianto pilota: si chiamerà SPARC. Il suo obiettivo sarà confermare il corretto funzionamento dei magneti per la configurazione toroidale e il raggiungimento del bilancio positivo di energia netta. Permetterà di studiare la gestione della potenza e la stabilità del plasma, la resistenza dei materiali nell’ambiente di fusione e l’apparato di iniezione del combustibile. SPARC, a sua volta, farà da banco di prova per lo sviluppo di ARC: il primo impianto scala industriale completo dei sistemi per la raccolta dei neutroni e per la produzione di energia in grado di immettere in rete elettricità a zero emissioni di CO₂, la cui realizzazione è prevista entro i primi anni del 2030. Un risultato fondamentale è già stato raggiunto nel settembre 2021 con la sperimentazione del primo prototipo di magnete con tecnologia superconduttiva HTS (High Temperature Superconductors): una vera e propria svolta nel percorso per ottenere il primo impianto commerciale per l’energia da fusione”, continua la nota.

Superconduttori ReBCO: le particolarità della tecnologia che sta sviluppando CFS

“La possibilità di utilizzare l’enorme potenziale della fusione per produrre elettricità a zero emissioni di CO₂ dipende in massima parte dal riuscire a progettare e costruire una centrale in grado di generare più energia di quanta ne richieda per funzionare. Se la teoria è nota ai fisici dagli anni ’50 del secolo scorso, i tentativi per applicarla nella realtà si sono scontrati, finora, con una serie di sfide prima di tutto teoriche, legate alla modellazione di plasmi a temperature elevatissime, ma anche ingegneristiche connesse fra l’altro, con la necessità di confinare questi plasmi all’intero dell’impianto Per ottenere la fusione dell’idrogeno, in primo luogo, è necessario portare la miscela di deuterio e trizio a temperature superiori ai 100 milioni di gradi. Nessun materiale sulla Terra può resistere a queste condizioni per cui il plasma deve essere contenuto e mantenuto sospeso all’interno del reattore. Per far questo si può utilizzare la tecnologia Tokamak: un dispositivo a forma di ciambella in cui, grazie a un intenso campo di induzione magnetica generato da magneti a superconduttori, il plasma viene alimentato e fatto fluttuare vorticosamente in alto vuoto impedendo che venga a contatto con le pareti. Da qui il nome della tecnologia: fusione a confinamento magnetico. I magneti impiegano la tecnologia dei superconduttori, già disponibile per applicazioni industriali da molto tempo: per esempio in medicina, nella risonanza magnetica. Tutti i superconduttori, però, lavorano a temperature molto basse. Nei magneti superconduttori progettati finora per la fusione (LTS – Low Temperature Superconductors) si utilizzano materiali che richiedono temperature prossime allo zero assoluto e cioè -273 °Celsius: il limite assoluto di temperatura dove tutta la materia è perfettamente immobile. L’uso degli LTS costringe a costruire macchine di dimensioni colossali per ottenere le condizioni di fusione sufficienti allo sviluppo industriale. I magneti superconduttori realizzati e testati con successo da Commonwealth Fusion Systems, invece, utilizzano un tipo innovativo di superconduttori industriali a base di ossidi di terre rare, bario e rame (ReBCO – Rare Earth Barium Copper Oxide) definiti “ad alta temperatura” (HTS – High Temperature Superconductors) perché richiedono temperature di “solo” circa – 253 ° Celsius”, si legge ancora nella nota.

Proprio questa differenza di soli venti gradi Celsius, in apparenza di poca entità, permette agli impianti progettati da CFS di ottenere un risparmio decisivo in termini sia energetici sia di gestione operativa, rendendo possibile la generazione di correnti molto più alte per la creazione dei campi magnetici. Questo consentirà di realizzare reattori molto più compatti, semplici ed efficienti di quelli fino ad ora concepiti.

Ad esempio, rispetto a ITER – oggi in costruzione – il reattore dimostrativo SPARC sarà cinque volte meno potente, ma avrà dimensioni sessantacinque volte più contenute e potrà lavorare a campi magnetici quattro volte più potenti. Nel test del settembre 2021, il prototipo di magnete superconduttore realizzato da Commonwealth Fusion Systems è stato percorso da una corrente elettrica con intensità di 40.000 Ampere e ha generato un campo con densità di flusso magnetico pari a 20 tesla: un record che dimostra l’importanza strategica di questa tecnologia per arrivare a realizzare il primo reattore a fusione”.

Un contributo necessario alla decarbonizzazione

“L’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico sarà un vero game changer nel percorso di decarbonizzazione poiché permetterà di generare grandi quantità di energia in modo sicuro, virtualmente illimitato e senza alcuna emissione di gas serra. Il tipo di centrale progettata dal CFS, compatta ed efficiente, si presta per una applicazione diffusa che potrà essere integrata con le rinnovabili dove non arriva la rete elettrica. La fusione, inoltre, diventerà sempre più importante e necessaria man mano che ci avvicinerà al punto massimo di espansione delle rinnovabili, ipotizzabile attorno al 2040 quando, per motivi tecnici, non sarà più possibile realizzare altri impianti per la generazione eolica e solare. Una valutazione di CFS ha ipotizzato che per il 2050 la fusione a confinamento magnetico potrebbe fornire un contributo del 20% al fabbisogno energetico mondiale senza produrre CO₂ o altri gas serra, grazie a 10.000 impianti distribuiti a livello globale”, conclude la nota di Eni.

Descalzi: “con la fusione grandi quantità di energia pulita” 

Vedremo realizzata la prima centrale elettrica di CFS basata sulla fusione a confinamento magnetico all’inizio del prossimo decennio, avendo poi davanti a noi quasi vent’anni per diffondere la tecnologia e raggiungere gli obiettivi di transizione energetica al 2050. Questo vorrà dire disporre a livello industriale di una tecnologia in grado di fornire grandi quantità di energia senza alcuna emissione di gas serra prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile fornendo un contributo sostanziale alla transizione energetica”. Lo ha detto l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, commentando il nuovo accordo con CFS.  

Per questo siamo di fronte a una potenziale svolta tecnologica epocale. Da diversi anni Eni sta ponendo la leadership tecnologica, con un approccio di neutralità e diversificazione, alla base del proprio percorso di decarbonizzazione. Consapevoli del grande valore strategico di questa tecnologia e della solidità di CFS, fin dal 2018 Eni ha investito nella società ed è stata la prima azienda energetica ad impegnarsi concretamente in questo settore. Oggi rafforziamo ulteriormente questa collaborazione con le nostre competenze ed esperienza con l’obiettivo di accelerare il più possibile il percorso di industrializzazione della fusione“, ha aggiunto l’ad di Eni.

“L’accordo di collaborazione tra CFS e il nostro partner di lunga data, Eni, ha il grande potenziale di far progredire i nostri sforzi sulle principali sfide globali e sulle opportunità di trasformazione del panorama energetico grazie ad una fornitura illimitata di energia pulita da fusione“, ha detto il CEO di CFS Bob Mumgaard. “Questo accordo sottolinea il ruolo chiave che le società energetiche esistenti svolgono nell’accelerare l’industrializzazione dell’energia da fusione e la forza della dell’abbinamento con tali aziende”.  

Descalzi: “fusione passo rivoluzionario anche geopolitico” 

Le implicazioni saranno che non ci saranno più Paesi che hanno energia primaria e Paesi che non ce l’hanno, Paesi che riescono a pagare la bolletta e Paesi che non ci riescono, perché essendo l’acqua il feedstock, quindi isotopi dell’idrogeno, non essendoci praticamente radioattività residua se non marginale vuol dire che è una grande rivoluzione“. Lo ha detto l’ad di Eni, Claudio Descalzi nel corso della conferenza stampa successiva alla sigla del nuovo accordo con CFS. “Nessun Paese potrà ricattare nessuno. Tutti potranno avere accesso all’energia. È una rivoluzione incredibile perché si potranno sviluppare industrie, catene alimentari, catene sanitarie a prezzi bassissimi. Tutti saranno allo stesso livello perché tutti avranno costi dell’energia bassissimi. Cambia moltissimo, nessuno potrà ricattare nessuno e ogni Paese sarà indipendente. Un po’ come per l’ossigeno che ognuno di noi può respirare senza chiederlo a nessuno, così sarà per l’energia. È un passo rivoluzionario. La moneta di scambio sarà la pace che otterremo“, ha aggiunto l’ad di Eni, in riferimento soprattutto ai Paesi in via di sviluppo come quelli africani.  

La fusione può cambiare il benessere delle “persone e della geopolitica“, facendo sì che l’energia “non sia più un problema, o una causa di guerra. L’insicurezza” energetica potrebbe “essere risolta e tutto potrebbe migliorare. Dall’energia abbiamo cibo, sanità e istruzione”.  

L’Europa non dipende esclusivamente dagli Stati Uniti sul piano energetico, ha detto ancora Descalzi, parlando con i giornalisti alla sede di Commonwealth Fusion Systems a Devens, in Massachusetts. “L’Europa sta cercando una diversificazione non solo in termini geografici, ma anche in termini di tecnologie, e fortunatamente ci sono Paesi molto diversificati che sono in grado di fornire gas: èil caso degli Stati Uniti, ma anche dell’Africa e del Medio Oriente ad esempio”, ha detto, ricordando che sui 400 miliardi di metri cubi necessari da Washington ne arrivano 60-70, a differenza dei 180 che arrivavano dalla Russia. “Una dipendenza diversificata mitiga in maniera significativa il rischio di essere nelle mani di un unico Paese per quanto riguarda l’energia“, ha concluso. 

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