L’ultima eruzione del Vesuvio

L'ultima eruzione del Vesuvio si è verificata a metà marzo 1944, in piena seconda guerra mondiale con gli alleati che avevano appena liberato la Campania
  • eruzione vesuvio 1944
    La fase parossistica dell’eruzione con la colonna eruttiva ben visibile. Foto National Archives and Record Administration, College Park, Maryland, USA. Il 340° Bomb Group statunitense nel marzo 1944 era di stanza nei pressi di Terzigno
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    L’eruzione vista dal mare. L’aereo sulla destra è un Curtiss P-40 dell’aviazione statunitense. Foto National Archives and Record Administration, College Park, Maryland, USA. Il 340° Bomb Group statunitense nel marzo 1944 era di stanza nei pressi di Terzigno
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    La lava fumante non risparmiò gli edifici ecclesiastici. Foto National Archives and Record Administration, College Park, Maryland, USA. Il 340° Bomb Group statunitense nel marzo 1944 era di stanza nei pressi di Terzigno
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    Un B-25 del 340° Gruppo Bombardieri sepolto dalla cenere del Vesuvio il 23 marzo 1944 al campo di volo nei pressi di Terzigno. Foto National Archives and Record Administration, College Park, Maryland, USA. Il 340° Bomb Group statunitense nel marzo 1944 era di stanza nei pressi di Terzigno
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    Diversi paesi circumvesuviani furono invasi dalle colate di lava, alte anche fino a 5-6 metri. Foto National Archives and Record Administration, College Park, Maryland, USA. Il 340° Bomb Group statunitense nel marzo 1944 era di stanza nei pressi di Terzigno
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    Ad eruzione finita un B-25J del 57° Bomb Wing passa sopra il Vesuvio. L’aereo sulle ali porta uno slogan significativo: “Finito Benito Next Hirohito”. Foto di John Sutay, storico del 57° BW, reperita grazie a Dominique Taddei
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L’ultima eruzione del Vesuvio si è verificata tra 18 e 24 marzo 1944, in piena seconda guerra mondiale, esattamente 79 anni fa. Dal punto di vista vulcanico fu un evento importante, seppur non paragonabile a quello del 79 d.C. quando vennero distrutte Ercolano, Pompei, Stabia e Oplontis nè a quello del 1631 da cui scaturì il grande culto per San Gennaro. L’eruzione più importante e recente era stata quella dell’aprile 1906 che provocò oltre 200 morti in tutto l’hinterland vesuviano e persino a Napoli città, seppellita dalla cenere. Poi ci fu un altro evento nel 1929, ma più lieve.

L’eruzione del 1944 è stata meno devastante, anche se molto spettacolare. Quando il Vesuvio inizia a dare segnali di eruzione a Napoli non se ne accorge nessuno: siamo a gennaio 1944 e la città è ancora in festa per l’arrivo degli alleati che pochi mesi prima, il 1° ottobre 1943, avevano ripristinato la libertà e la pace dopo la dittatura fascista e la sanguinosa guerra mondiale. A gennaio 1944, però, si apre una frattura alla base del piccolo cono del vulcano e la lava fuoriesce dal cratere e percorre qualche centinaio di metri sui fianchi della montagna prima di fermarsi. Nell’indifferenza generale. Qualche altra colata compie lo stesso cammino per circa un mese, poi tutto torna tranquillo. Il 13 marzo si verifica un altro segnale di risveglio: il piccolo cono collassa e si verificano deboli lanci di lapilli e scorie. Dobbiamo all’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Imbò, la cronaca dettagliata dell’evento eruttivo vero e proprio che inizia nel pomeriggio del 18 Marzo con una fase tipicamente stromboliana: piccole esplosioni e colate di lava che superano il dislivello del Monte Somma e si dirigono a Nord mentre scorie e lapilli vengono spinti fino ad un’altezza di circa 100 metri.

L’attività di ricerca era stata messa a dura prova dalla guerra: durante la difesa dagli alleati, i nazi-fascisti avevamo trasformato l’Osservatorio in una stazione militare; nonostante questo, e i grossi danni causati dai bombardamenti, Imbò, coadiuvato dalla moglie e da un coraggioso custode, portarono avanti le osservazioni e la raccolta dei dati durante l’eruzione del Vesuvio. Il loro duro lavoro ha costituito il più importante contributo alla Sismologia e alla Vulcanologia moderne: le interpretazioni dei sismogrammi nel corso dell’attività del 1944, e le osservazioni effettuate, hanno gettato le basi per le moderne scienze dei terremoti e dei vulcani. Imbò fu oltretutto uno dei primi scienziati a correlare, quantificandola, l’attività eruttiva con i dati sismici: avanzò infatti la teoria, tuttora valida, che il tremore vulcanico sia causato dal violento degassamento del magma che risale nel condotto verso il cratere.

Dal 19 marzo la lava scivola nel versante settentrionale e lungo il Fosso della Vetrana, ad una velocità molto variabile. Il movimento della lava, oltre che dalla morfologia, è influenzato da diversi fattori tra cui la portata della bocca effusiva, la composizione e la temperatura: in generale ad un maggior contenuto in silice (spesso presente in buona quantità nei prodotti vesuviani) corrisponde una minore velocità così come una minore viscosità si traduce in uno spostamento più rapido. Nel 1944, come si evince anche da alcune preziose immagini d’epoca, le colate laviche raggiungono altezze anche di 7-8 metri e percorrono poche decine di metri all’ora, soprattutto una volta giunte a valle dove iniziano a raffreddarsi: sono costituite da una crosta superficiale semisolida che, spinta dalla porzione interna più fluida, tende a sgretolarsi in blocchi. La lava tra l’altro compie lo stesso tracciato del 1855 ma stavolta raggiunge i paesi di Massa di Somma e San Sebastiano dove si infila tra le vie e danneggia numerose abitazioni. Ancora oggi in quest’ultima cittadina sono ben visibili i residui solidificati di quell’eruzione: addirittura lungo Via Roma alcune case sono state edificate direttamente sulla colata di lava del 1944. Mentre aumentano le scosse sismiche, nel pomeriggio del giorno 21 si assiste ad un altro fenomeno: si sviluppano infatti vere e proprie fontane di lava, alte anche fino a 2 km. Si tratta di fenomeni molto particolari, che di notte assumono contorni spettacolari (a Napoli la popolazione rimane alzata a vedere i bagliori), tipici delle eruzioni hawaiane dove però sono molto più intensi e costanti. Nel 1944 sul Vesuvio queste fontane si sviluppano ad intermittenza e con durate non superiori all’ora, con il vento che trasporta scorie e lapilli in direzione sud-est. Angri, Pagani, Scafati, Nocera e le campagne circostanti sono infatti interessate da una notevole caduta di materiali piroclastici, fino a dieci centimetri di spessore. Al contrario, per tutta la durata dell’evento, Napoli ed il litorale del golfo vengono praticamente risparmiati dalla cenere. In questo senso l’eruzione stromboliana differenzia in maniera esemplare le sue conseguenze. Se infatti il versante settentrionale è interessato soprattutto dall’avanzata della lava (che arriva nei pressi di Cercola), è la parte sud-orientale della montagna a subire la maggiore caduta di cenere e lapilli: vengono infatti colpiti anche Poggiomarino, S. Giuseppe Vesuviano e Terzigno. In un campo di volo nei dintorni di quest’ultima cittadina si verifica un fatto clamoroso: 88 bombardieri B-25 Mitchell dell’aviazione statunitense vengono ricoperti dalla cenere e danneggiati vistosamente, “peggio che sotto un bombardamento” come testimoniarono a più riprese i reduci americani.

Nel primo pomeriggio del 22 marzo un altro cambiamento, il più vistoso e pericoloso. Se la lava sul versante settentrionale tende ormai a perdere velocità, aumenta invece l’intensità esplosiva dell’eruzione, con la formazione di una colonna eruttiva alta fino a 5 km in cui sono presenti anche prodotti lapidei strappati con violenza dal condotto. Si susseguono le esplosioni e, causa il parziale collasso della colonna, si formano, soprattutto nel versante meridionale, alcuni  modesti flussi piroclastici e piccole nubi ardenti che però, essendo di dimensioni limitate, si esauriscono direttamente sui fianchi della montagna, senza raggiungere fortunatamente (al contrario del 79 e del 1631) i nuclei abitativi. Continua inoltre a svilupparsi la cosiddetta “agitazione sismica”: frequenti scosse telluriche connesse alla degassazione del magma in prossimità della bocca effusiva, con conseguenti esplosioni nel condotto che provocano onde sismiche nel terreno. E’ questa la fase principale dell’eruzione che testimonia una volta di più la pericolosità del Vesuvio: un vulcano in cui l’attività esplosiva, soprattutto a seguito di lunghi periodi quiescenti, non è mai mancata. E quindi si ripeterà anche in futuro. Ma torniamo al marzo 1944.

Dal 23 marzo le esplosioni diventano freatomagmatiche (per il contatto tra magma ed acqua), aumenta la sismicità e si verificano altri piccoli flussi e frane di materiale appena eruttato. Poi però le esplosioni diminuiscono e torna la lava che stavolta si incanala in direzione sud-ovest ma senza compiere particolari danni. La cenere eruttata cambia il suo colore da nerastra a grigio-biancastra ed infine bianca al punto da far sembrare la cima della montagna coperta di neve. Poco a poco l’eruzione esaurisce la sua potenza. Il 29 marzo è praticamente tutto finito (dal cratere uscirà un rigagnolo di fumo fino al 7 aprile) e si passa alla stima dei danni. Il bilancio complessivo dell’eruzione fu di 26 vittime (alcune delle quali per i crolli dei tetti sotto il peso dei materiali vulcanici), 12 mila evacuati, le strade di interi paesi ricoperte da uno spesso strato di cenere o da metri di colate laviche, i raccolti delle campagne distrutti, le truppe alleate sconvolte dal fenomeno insolito ed inaspettato. Questa del 1944 è l’ultima eruzione del Vesuvio: con essa, secondo molti esperti, si chiude un ciclo iniziato nel lontano 1631. Da 79 anni, infatti, il vulcano dorme come un orso in letargo: il parere dei vulcanologi è che in tutto questo periodo il condotto magmatico sia passato dalla fase “aperta” a quella “chiusa” o “ostruita”, con l’aumento del rischio di un’eruzione intensa ed esplosiva. Da tempo gli unici segnali percettibili rimangono piccoli tremori sismici e le fumarole visibili nel cratere: nessuno può sapere quanto ancora durerà questa situazione.

L’INGV tiene costantemente sotto controllo il Vesuvio attraverso l’osservazione di parametri geochimici e geofisici, e vengono effettuate regolari campagne di misura da diversi ricercatori che si occupano poi di controllare ed interpretare i dati raccolti. In realtà non è solo questo Vulcano a preoccupare la comunità scientifica e la popolazione partenopea; nell’area napoletana è la zona dei Campi Flegrei a suscitare l’attenzione più grande, poiché si tratta di una gigantesca caldera di circa 15 chilometri di diametro, al cui interno sorgono numerosi centri urbani densamente abitati, che mostra tutte le evidenze  di un sistema magmatico tutt’altro che sopito.

Lo studio del passato ed un attento monitoraggio del presente possono preparare meglio tutti noi ad affrontare le incognite del futuro, perché non possiamo sapere quando ma siamo certi che un’altra grande eruzione ci sarà.

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