Nel mese di febbraio, la famiglia di Bruce Willis ha reso noto che l’attore americano soffre di demenza frontotemporale (Ftd), malattia che lo ha portato a ritirarsi dalle scene. “Da quando nel 2022 abbiamo annunciato la diagnosi di afasia, le condizioni di Bruce sono progressivamente peggiorate e ora abbiamo una diagnosi più specifica: demenza frontotemporale,” avevano fatto sapere i familiari. “Purtroppo le difficoltà di comunicazione sono solo un sintomo della malattia di Bruce. È doloroso, ma è anche un sollievo avere adesso una diagnosi chiara“.
Ora contro questa patologia, arriva una speranza da una molecola che combatte la neuroinfiammazione (pealut). Lo evidenzia uno studio presentato al 25° Congresso dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (Aip) curato da Giacomo Koch, neurologo professore ordinario di fisiologia all’università di Ferrara e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia.
Cos’è la demenza frontotemporale
La demenza frontotemporale è una patologia neurodegenerativa che interessa primariamente i lobi frontali e/o temporali del cervello e rappresenta la causa più frequente di demenza neurodegenerativa ad esordio presenile. È una malattia eterogenea caratterizzata da compromissione delle funzioni esecutive frontali, deficit del linguaggio o cambiamenti del comportamento e della personalità ed un grave declino del funzionamento globale.
“Attualmente, non esiste un trattamento farmacologico efficace specifico per rallentare la progressione della malattia e le strategie terapeutiche si basano principalmente sull’uso di agenti sintomatici per controllare i sintomi comportamentali. Recenti scoperte supportano l’idea che la neuroinfiammazione sia un elemento chiave nel processo patogenetico della Ftd a partire dalle prime fasi di malattia ed è stato ipotizzato che nuovi farmaci mirati a modulare la neuroinfiammazione cerebrale possano potenzialmente rallentare la progressione della malattia“, sottolinea Koch.
Lo studio
Lo studio, controllato contro placebo, ha riguardato un campione di 50 pazienti affetti da demenza frontotemporale per valutare la sicurezza e l’efficacia della somministrazione di co-ultraPealut. Nella ricerca, è stato indagato “l’impatto clinico della molecola Pea sulla gravità della malattia e gli eventuali effetti benefici sui deficit cognitivi, sui sintomi comportamentali, sulle autonomie della vita quotidiana ed il rallentamento della progressione del declino funzionale – ha spiegato l’esperto – Inoltre, con un approccio multimodale (cognitivo e neurofisiologico) sono stati indagati i correlati cerebrali associati al trattamento con Pea-lut, facendo così notevoli passi avanti nella comprensione della fisiopatologia della malattia”.
Lo studio ha avuto lo scopo di verificare su un ampio campione di pazienti se la formulazione della Palmitoiltanolamide (Pea) e l’antiossidante flavonoide luteolina (Lut) sottoposta a un processo di ultramicronizzazione possa rappresentare una potenziale molecola terapeutica nei disturbi neurodegenerativi correlati alla Ftd, per le sue documentate proprietà antinfiammatorie e neuroprotettive. “I dati clinici e neurofisologici fino ad oggi raccolti sono molto incoraggianti – ha detto Koch – In un altro recente studio pilota del nostro gruppo pubblicato nel 2020 abbiamo indagato gli effetti cognitivi, comportamentali e neurofisiologici di un mese di somministrazione di coultrapea-lut alla dose orale di 700 mg due volte al giorno in un campione di 17 pazienti con Ftd. Dall’analisi dei risultati è emerso che la co-ultrapealut è stata in grado di migliorare le funzioni esecutive frontali e i disturbi neuropsichiatrici”.