Epatite C: da Vicenza a Roma al via la 5ª edizione del progetto Hand

Andreoni (Simit): "in Italia in 200mila con infezione da Hcv ancora non diagnosticata"
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Giunge alla quinta edizione il progetto Hand (Hepatitis in Addiction Network Delivery), nato con l’obiettivo di anticipare la fase di screening dell’epatite C (Hcv) nella popolazione Pwid (People Who Inject Drugs) e in tutta l’utenza a rischio afferente ai SerD. Il progetto, che nel corso dell’anno interesserà l’Italia da nord a sud, toccando città come Vicenza, Milano, Lecce, Torino e Roma, ha accompagnato anche un iter istituzionale importante, che ha consolidato il Fondo nazionale per lo screening gratuito e le delibere attuative regionali.

Il progetto Hand, promosso dal provider Letscom E3 con il contributo non condizionante di AbbVie, torna, dunque, su territorio italiano per fare network dopo aver contribuito nelle delle edizioni passate, con l’attivazione di 60 network locali, l’erogazione di oltre 10.000 test rapidi anti Hcv, la formazione di circa 2.000 operatori con gli oltre 60 corsi Ecm organizzati.

Per la sua rilevanza a livello nazionale, Hand riceve anche per quest’anno il patrocinio delle società scientifiche: SIMIT, FeDerSerD, SIPaD e SITD.Il progetto Hand – spiega il direttore scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive e tropicali (SIMIT) e professore emerito di Malattie Infettive dell’Università di Roma Tor Vergata, professor Massimo Andreonisi trova in un contesto che stenta a decollare. Lo Stato italiano ha dato il via libera a un finanziamento di 71,5 milioni di euro per procedere allo screening dell’epatite C alla popolazione nata tra il 1969 e il 1989, oltre a tutti I tossicodipendenti e ai detenuti. Se nei Ser.D. e nelle carceri lo screening sta procedendo abbastanza bene, nella popolazione generale, in gran parte delle regioni italiane non sta invece accadendo lo stesso“.

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Andreoni sottolinea poi che “questo è un problema estremamente rilevante, considerando che in Italia vi sono almeno 200mila soggetti con infezione da Hcv ancora non diagnosticati. Una situazione che non ci mette in linea con quanto richiesto dall’Oms, ovvero l’eliminazione dell’infezione da Hcv entro il 2030. Se è vero che il Covid non ha facilitato le campagne di screening, in questo momento dobbiamo stimolare al massimo gli operatori sanitari impegnati nella cura e nella diagnosi dell’infezione dell’epatite C“.

È dunque ancora necessario e utile che vi siano progetti come Hand a supporto dei servizi per le dipendenze o comunque per il sistema di screening, diagnosi e cura dell’epatite C. “È fondamentale– precisa Andreoni- proprio perché, nonostante la disponibilità di screening gratuito, questa strada non viene percorsa. L’epatite C è una malattia estremamente subdola che può portare alla cirrosi epatica, all’epatocarcinoma, al trapianto di fegato, fino al decesso. In Italia abbiamo curato più di 200mila soggetti, il 98% dei quali sono guariti, hanno cioè eradicato completamente l’infezione grazie ad armi fortissime. Ormai la cura dell’epatite C si fa in due o tre mesi di terapia con poche comprese al giorno“.

Ma cosa manca all’Italia per il pieno raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità? Il professore emerito di Malattie Infettive dell’Università di Roma Tor Vergata ricorda che “il nostro era uno dei nove Paesi al mondo in linea per ottenere quanto chiesto dall’Oms. L’Italia stava procedendo con screening e trattamento in maniera del tutto efficace, eravamo tra i Paesi più virtuosi, grazie soprattutto alla possibilità di usare i farmaci da parte di chiunque fosse trovato positivo, senza dunque alcuna limitazione“.

Purtroppo– si rammarica Andreoni- tutto si è però rallentato. Ora si tratta di avviare questa macchina: da una parte stiamo chiedendo una proroga per lo screening fino al 2025, dall’altra stiamo chiedendo di allargare la fascia di età sulla popolazione, ovvero di fare screening anche ai soggetti nati tra il 1948 e il 1968“.

Andreoni si sofferma poi su ciò di cui, a suo avviso, l’Italia ha bisogno per l‘attuazione di tutti i piani di screening regionali. “Ciò che manca è una sensibilizzazione a livello regionale. Alcune regioni hanno avviato lo screening solo parzialmente, altre hanno individuato la modalità di screening e poi di ‘linkage to care’ ai diversi centri ma poi, in realtà, non hanno avviato in maniera efficace tutto questo. Ora, però non abbiamo più scuse legate alla pandemia“.

Ecco perché– spiega Andreoni- dovremmo riattivare tutto questo ed ecco perchè il progetto Hand, che coinvolge anche il personale infermieristico e tutti gli operatori sanitari, diventa fondamentale: tutti noi dobbiamo essere partecipi di questa grande sfida, dato che a livello europeo l’Italia è sicuramente uno dei Paesi a più alta endemia dell’epatite C. Le istituzioni ci sono state vicine, il ministero della Salute è molto sensibile a questa problematica e si sta impegnando per portare le regioni ad attivare a tutti i livelli il massimo dell’attività per cercare di giungere all’eliminazione dell’epatite C, dalla popolazione generale a quelle determinate fasce d’età, dai Ser.D. fino alle case circondariali“.

Uno screening che, secondo Massimo Andreoni, deve essere inserito negli obiettivi aziendali dei Direttori Generali. Credo sia davvero un’ottima idea e che sia piuttosto semplice ipotizzare un percorso di questo tipo: ogni volta che in ospedale arrivano persone della fascia di età compresa nello screening deve essere offerto proattivamente quello per l’epatite C. Un sistema che si è dimostrato estremamente efficace laddove è stato applicato“.

Far sì che gli ospedali diventino un centro per lo screening sarebbe una grande spinta. Per valorizzarlo ancora di più– conclude- si potrebbe inserire questo strumento tra gli obiettivi che i Direttori Generali sono chiamati a raggiungere durante la loro attività. Ritengo che l’ottenimento di una percentuale significativa di persone screenate per l’epatite C all’interno dei propri ospedali sarebbe davvero un bell’incentivo per i Direttori Generali“.

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