Un recente studio, guidato da Manuel Arca Sedda, ricercatore presso il Gran Sasso Science Institute, e pubblicato sulla prestigiosa rivista “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society” (MNRAS), getta luce sui meccanismi che portano alla formazione dei misteriosi buchi neri intermedi (IMBHs). Si tratta di oggetti con masse comprese tra qualche centinaio e decine di migliaia di masse solari, che potrebbero rappresentare l’anello di congiunzione tra i loro parenti più piccoli, i buchi neri stellari, e i giganti supermassicci che popolano i centri delle galassie.
Esistono infatti diverse tipologie di buchi neri: sebbene siano accomunati da densità talmente elevate che nemmeno la luce può fuggire alla loro attrazione gravitazionale, la massa di questi corpi celesti può variare in un intervallo molto ampio e discriminarne il meccanismo di formazione. Se ne possono individuare tre macrocategorie di interesse astronomico: stellari, intermedi, e supermassicci. I primi, come suggerisce il nome, si formano quando una stella di massa sufficientemente grande, cioè almeno venti volte più massiccia del nostro sole, esaurisce il suo combustibile e soccombe alla forza di gravità collassando su sé stessa: rappresentano la tipologia più leggera di buco nero e sul processo che porta alla loro formazione si ha un quadro teorico decisamente chiaro. All’estremo opposto ci sono gli immensi buchi neri supermassicci, di masse milioni o miliardi di volte maggiori rispetto alla nostra stella. Si ritiene che ogni galassia ne ospiti uno al suo centro e, nel 2017, grazie all’Event Horizon Telescope è stato possibile ottenerne una prima immagine diretta. Nonostante questo formidabile risultato, la formazione e l’accrescimento di questi oggetti rappresenta ancora un affascinante mistero per l’astronomia moderna, soprattutto a causa della mancanza di una prova definitiva a sostegno dell’esistenza stessa dei buchi neri di massa intermedia. Ed è proprio questo il tema dello studio di Arca Sedda, il primo di altri due attualmente in fase di revisione.
“I buchi neri di massa intermedia sono difficili da osservare – spiega il ricercatore del GSSI – basti pensare che i limiti osservativi attuali non ci permettono di dire nulla sulla popolazione di IMBH con masse tra 1,000 e 10,000 masse solari e rappresentano un grattacapo per gli scienziati anche per quanto riguarda i possibili meccanismi che ne portano alla formazione“. Ecco allora che uno degli obiettivi della ricerca è stato proprio cercare di comprendere come questi si formano.
“Abbiamo svolto dei nuovi modelli al computer in grado di simulare la formazione di questi misteriosi oggetti, e abbiamo trovato che tali IMBH possono formarsi in ammassi stellari tramite una complessa combinazione di tre fattori: fusioni tra stelle molto più grandi del nostro sole, l’accrescimento di materiale stellare su buchi neri stellari e, infine, la fusione tra buchi neri stellari. Quest’ultimo è un processo che ha come conseguenza la possibilità di “vedere” questi fenomeni tramite la rilevazione di onde gravitazionali,” spiega Arca Sedda. Lo studio ipotizza anche cosa accade dopo la nascita di buchi neri intermedi: vengono lanciati via dai loro stessi ammassi tramite complesse interazioni gravitazionali o a causa di un processo noto come rinculo relativistico, e tutto ciò ne impedisce la loro crescita. “I nostri modelli mostrano che, sebbene i semi di IMBH si formino naturalmente da interazioni stellari energetiche in ammassi stellari, è improbabile che diventino più pesanti di qualche centinaio di masse solari, a meno che l’ammasso genitore non sia estremamente denso o massiccio“.
Resta però da chiarire un quesito scientifico importante, cioè se i buchi neri intermedi sono l’anello di congiunzione tra i buchi neri stellari e i supermassicci. È una domanda aperta, ma lo studio dà spazio per qualche ipotesi. “Per rispondere abbiamo bisogno di due ingredienti – chiarisce Arca Sedda – uno o più processi in grado di formare buchi neri decisamente dentro l’intervallo di massa degli IMBH, e la possibilità di trattenere tali IMBH nell’ambiente ospite. Il nostro studio pone limiti stringenti sul primo ingrediente, fornendoci una chiara panoramica di quali processi possano concorrere alla formazione degli IMBH. Considerare in futuro ammassi più massicci e contenenti un maggior numero di binarie (sistemi composti da due stelle in orbita una attorno all’altra) potrebbe essere la chiave per ottenere anche il secondo ingrediente. Ma questo richiederà enormi sforzi da un punto di vista tecnologico/computazionale“.
Istituti coinvolti: Gran Sasso Science Institute, Università degli Studi di Padova, Astronomisches Rechen Institute (Zentrum fur Astronomie der Universitat Heidelberg), Max Planck Institut fur Astronomie (MPIA, Heidelberg), Max Planck Institute for Astrophysics (MPA, Garching), National Astronomical Observatories and Key Laboratory of Computational Astrophysics (Chinese Academy of Science, Beijing), Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics (Peking University), Nicolaus Copernicus Astronomical Centre (CAMK, Warsaw), Konkoly Observatory (Eotvos University, Budapest), Main Astronomical Observatory (National Academy of Science of Ukraine, Kiev), INFN-Padova, INAF-Padova, INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte.