Nel mese della Giornata Mondiale del Cuore (29 settembre), una recente ricerca fa luce sul perché in alcune persone quest’organo sembri essere più resistente e capace di tornare a funzionare in modo efficiente persino dopo un infarto. A giocare un ruolo chiave è il gene BPIFB4, nella sua variante LAV (Longevity Associated Variant), già noto come “gene della longevità”, perché particolarmente diffuso tra i centenari. Le interessanti evidenze emergono da uno studio appena pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease, coordinato dal professor Annibale Puca del Gruppo MultiMedica di Milano e dal professor Paolo Madeddu dell’Università di Bristol: la proteina agisce direttamente sui cardiomiociti – le cellule che, con la loro attività contrattile, servono a far pulsare il cuore – rendendoli più performanti. In questo modo, l’organo reagisce meglio di fronte all’infarto, accusandone meno gli effetti e ripristinando più velocemente la sua funzionalità.
Il lavoro, finanziato dal Ministero della Salute e dalla British Heart Foundation, si è articolato in tre fasi, una clinico-osservazionale, una in vivo e una in vitro. Nella prima sono stati analizzati i campioni di plasma di 492 pazienti tra i 59 e i 76 anni, che avevano subìto un infarto, ed è emersa una correlazione inversa tra i livelli di proteina BPIFB4 circolante nel sangue e la gravità della patologia coronarica: i pazienti con malattia trivasale, la forma più severa e fatale che vede il restringimento di tutte le tre arterie coronariche, presentavano i livelli più bassi di proteina circolante.
I risultati della fase in vivo vanno nella stessa direzione, dimostrando un effetto protettivo di LAV-BPIFB4 sul cuore, mediante il potenziando della funzione e della vascolarizzazione cardiaca. In una popolazione di topi ai quali era stato indotto l’infarto, i soggetti più resistenti, che avevano reagito meglio all’evento riportando meno danni, erano quelli a cui era stato trasferito il gene della longevità, che aveva quindi rafforzato i loro cuori.
Per comprendere in che modo la proteina dispieghi questa sua capacità di potenziamento del muscolo cardiaco, i ricercatori, nella fase in vitro, si sono concentrati su due particolari tipologie di cellule umane cardiache: i cardiomiociti, responsabili della contrazione, e i fibroblasti, che hanno la funzione di produrre tessuto connettivo.
“È stato sorprendente osservare come LAV-BPIFB4, la molecola diffusa nei soggetti con vita lunga e sana, sia in grado di migliorare la performance del cardiomiocita umano, la cellula muscolare del cuore deputata alla generazione e alla trasmissione dell’impulso contrattile, cioè del battito cardiaco”, sottolinea Monica Cattaneo, ricercatrice del Gruppo MultiMedica, primo autore della pubblicazione. “Difatti, la proteina, aggiunta alla coltura cellulare, conferisce al cardiomiocita una maggior forza di contrazione e ne aumenta la frequenza del battito. Questo vantaggio si associa a un’ulteriore azione positiva che LAV-BPIFB4 esercita sul fibroblasto, limitando la sua produzione di fibrosi, che rende il tessuto cardiaco più rigido. In virtù di tali benefici, riteniamo che la proteina abbia un forte potenziale terapeutico, preservando l’equilibrio e lo stato di salute del cuore e opponendosi al dannoso rimodellamento cardiaco che contribuisce all’insorgenza delle patologie ischemiche”.
“In tutti gli studi che abbiamo condotto negli ultimi anni, la proteina LAV-BPIFB4 si è dimostrata in grado di funzionare in diversi contesti patologici”, evidenzia Annibale Puca, capo laboratorio presso l’IRCCS MultiMedica. “Ha dato prova della sua efficacia, in modelli animali, nel prevenire l’aterosclerosi, l’invecchiamento vascolare, le complicazioni diabetiche, e nel ringiovanire il sistema immunologico e cardiaco. Oggi si aggiunge un ulteriore importante tassello: la protezione dall’infarto. Tutte queste evidenze ci suggeriscono che la proteina o gene della longevità sia una sorta di strumento attraverso cui la natura ci rende più capaci di adattarci a nuove situazioni, più resistenti alle malattie. Malattie che, insieme al processo di invecchiamento, hanno tutte un minimo comune denominatore, la perdita di omeostasi, quel processo che permette alle cellule di mantenere il loro equilibrio e quindi di sopravvivere. Il ‘segreto del successo’ della LAV-BPIFB4 – conclude Puca – risiede proprio nella sua capacità di ristabilire quell’equilibrio”.