L’evento di Tunguska rimane un mistero astronomico da più di un secolo. Il 30 giugno 1908, si verificò un’esplosione da 15 megatoni a seguito dell’ingresso in atmosfera – e al possibile impatto – di un corpo da 50-80 metri di diametro sul cielo della Siberia centrale, nei pressi del fiume Tunguska Pietrosa. Le conseguenze furono decine di milioni di alberi improvvisamente rasi al suolo dalla terrificante onda d’urto, su un’area di oltre duemila km quadrati. Grazie a registrazioni sismiche e barometriche dell’epoca (il rumore dell’esplosione si udì fino a mille chilometri di distanza), ne conosciamo l’ora con buona approssimazione: erano le 07:14:28 locali, evidenzia Marco Malaspina su Media INAF. Ma rimane un mistero: cosa ha causato l’evento di Tunguska?
Il meteoroide che probabilmente ha prodotto l’evento non è mai stato ritrovato. Com’è possibile che non ne sia mai stato recuperato nemmeno un frammento? Un oggetto con lo stesso diametro, per dire, in Arizona circa 50mila anni fa produsse il celebre Meteor Crater e le meteoriti associate sono numerose, mentre a Tunguska di crateri non vi è traccia alcuna, riporta Malaspina. Le ipotesi non mancano. Potrebbe essere stata una piccola cometa, dunque un corpo prevalentemente formato da ghiaccio. Potrebbe essersi trattato sì di un asteroide, ma di quelli “fragili”: non di metallo, come l’asteroide che colpì l’Arizona, bensì di roccia, più frantumabile. Potrebbe anche essere stato di metallo ma con un angolo così radente da “rimbalzare” – o quasi – sull’atmosfera. Oppure potrebbe essere ancora lì. In attesa che qualcuno lo trovi. Se quest’ultima ipotesi fosse quella corretta, le domande diventano: è fisicamente possibile? Dimostrato che lo sia, dove dovremmo cercare?
È ciò a cui prova ora a rispondere uno studio, condotto da tre astronomi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, appena pubblicato su Icarus. Tre esperti della complessa arte del ricostruire la più probabile area di dispersione dei frammenti della caduta di un piccolo asteroide, il cosiddetto strewn field: Mario Di Martino, Giovanna Stirpe e, primo autore dello studio, Albino Carbognani. “In effetti le testimonianze degli eventi raccolte all’epoca della caduta parlavano di pietre comparse nella foresta subito dopo la catastrofe”, ricorda Carbognani. “Purtroppo, la prima spedizione di Leonid Kulik è stata fatta solo 19 anni dopo, e gli eventuali frammenti macroscopici hanno avuto tutto il tempo per essere inghiottiti dal fango della taiga”.
Macroscopici quanto? E qual è la probabilità che siano giunti al suolo? “Per un Tcb (Tunguska Cosmic Body, ndr) avente un’energia cinetica di 15 Mt (quella più accettata per Tunguska) e velocità atmosferica nel range 11-20 km/s (tipica di un impatto asteroidale), un frammento dell’ordine del metro di diametro e con strength (forza di coesione) nel range 14-85 MPa poteva resistere all’onda d’urto, sopravvivere all’airburst avvenuto a circa 8,5 km di quota e arrivare al suolo“, spiega Carbognani. “La coesione necessaria non è particolarmente elevata ed è fisicamente possibile, essendo circa solo due volte la strength massima stimata per il meteoroide di Carancas. Quindi è probabile che esistano frammenti macroscopici del Tcb. Peraltro, viste le piccole dimensioni dell’asteroide (circa 50-80 metri di diametro), il Tcb molto probabilmente era un corpo monolitico e non un rubble pile come ad esempio Bennu, che è molto più grande”.
Per capire dove cercare, Carbognani e colleghi hanno messo insieme i pochi dati disponibili grazie alle testimonianze storiche e alle numerose campagne scientifiche che si sono succedute da allora: dati come l’azimut della direzione di provenienza, il possibile angolo d’ingresso e l’epicentro dell’esplosione. Poi li hanno inseriti, con tutte le loro incertezze, in un modello messo a punto avvalendosi di un altro impatto, quello del secolo: l’evento di Chelyabinsk del 2013, per il quale è stato rinvenuto un frammento monolitico con una massa di ben 570kg e i dati sono abbondanti e molto precisi. Infine, grazie anche alla loro pluriennale esperienza con il progetto Prisma, coronata da un clamoroso primo successo nel 2020 con il ritrovamento della meteorite di Cavezzo, e a un software – ottimisticamente battezzato Meteorite Finder – da loro stessi sviluppato per calcolare il cosiddetto “volo buio” (dark flight) di un meteoroide e delimitarne l’area di dispersione sul terreno, hanno individuato la regione più promettente.
“Dai calcoli risulta che il possibile strewn field di Tunguska si colloca a circa 11km a nord-ovest dall’epicentro dell’esplosione e ha un’estensione di circa 140km quadrati. Se ci sono”, avverte Carbognani, “le meteoriti macroscopiche devono essere sottoterra, perché quando sono arrivate al suolo avevano ancora abbastanza energia cinetica per penetrare il fangoso suolo siberiano. In definitiva il caso Tunguska non è chiuso e potrebbero esserci dei frammenti del Tcb che aspettano di essere ritrovati: le informazioni che si potrebbero ottenere chiarirebbero la natura del corpo oltre ogni ragionevole dubbio. Sarebbe la soluzione di un “mistero” che dura da più di un secolo e che è tempo di risolvere”.