Nessuna “responsabilità o censura” va addebitata alla dirigenza del Pio Albergo Trivulzio di Milano “sull’ingresso precoce” del Covid nella struttura, ma le carenze “decisionali ed organizzativo-gestionali” e la “tardiva applicazione delle procedure di isolamento”, come il “ritardo” nel fornire mascherine e Dpi, hanno “potuto incidere sulla propagazione del virus all’interno dei reparti con una maggiore incidenza nel primo periodo della pandemia”, tra marzo e aprile 2020. Lo scrivono gli esperti nella maxi perizia depositata nelle nuove indagini sulle morti, nella prima ondata Covid, degli anziani ricoverati nella storica ‘Baggina’.
La maxi perizia, che sarà discussa in aula a dicembre, era stata disposta, con la formula dell’incidente probatorio, nel marzo dello scorso anno dal gip Marta Pollicino, che aveva preso il posto della collega Alessandra Cecchelli. Quest’ultima, a fine giugno 2022, aveva respinto l’istanza di archiviazione dell’indagine, formulata dai pm del pool guidato dall’aggiunta Tiziana Siciliano, per l’allora dg del Trivulzio, Giuseppe Calicchio, assistito dall’avvocato Vinicio Nardo e accusato di omicidio ed epidemia colposi e violazione delle regole sulla sicurezza, e per la stessa struttura. In questo modo erano state di fatto riaperte le indagini su quei mesi in cui c’erano state circa 400 morti.
Un anno e mezzo fa, Pollicino ha nominato un pool di esperti, tra cui il medico legale Pietro Tarzia, per accertare, in sostanza, la sussistenza o meno del “nesso di causalità tra i decessi e le infezioni riscontrate tra gli ospiti” e “il personale“, tra febbraio e dicembre 2020, e le “eventuali inosservanze” delle misure di sicurezza. E oggi, a quattro anni e mezzo di distanza dalla prima ondata del contagio, sono state depositate le centinaia di pagine della perizia.
In sostanza, i periti spiegano che la dirigenza della struttura non fu responsabile dell’ingresso “precoce” del virus, “avvenuto verosimilmente” attraverso “visitatori, pazienti, ambulatoriali e non” o lo stesso “personale“. Allo stesso tempo, però, nella perizia si punta il dito contro i ritardi nel “fornire i necessari Dpi”, anche per la “presa di posizione” dei vertici dell’istituto, almeno fino alla “prima decade di aprile” 2020, di “impedire-disincentivare-limitare l’utilizzo” di mascherine per non creare “allarmismo“. Poi, un “carente” addestramento del personale e un “incompleto-intempestivo isolamento dei casi sospetti”. “Criticabile” la “gestione dei ricoveri-ingressi nella struttura di 136 pazienti provenienti dall’esterno”.
In sintesi, i periti individuano più “elementi di censura”, soprattutto per i primi quattro mesi del 2020, “sotto l’aspetto organizzativo gestionale da parte dell’Amministrazione” del Trivulzio, anche considerando “il limite dettato dalle conoscenze possedute all’epoca dei fatti” sul Covid. Vanno tenute presenti, infatti, “le continue sollecitazioni che venivano rivolte all’amministrazione da parte del personale”.
“Su 485 morti al Trivulzio il 20% legate al Covid”
Tra gennaio e dicembre 2020, su un totale di 1.811 “ospiti-degenti” delle strutture del Pio Albergo Trivulzio di Milano, ci furono “485” morti, di cui 450 al Pat e 35 dopo “trasferimento” in ospedale. E per il “20,41%” di questi decessi, dall’analisi della documentazione medica anche se in assenza di esami autoptici, “è possibile oggi ritenere” che “la causa della morte” sia da attribuire alle “complicanze dell’infezione da Covid“, insorte “comunque in soggetti anziani” portatori di “patologie considerate a rischio sia di contagio, sia di compromissione funzionale di organi ed apparati”. Lo scrivono gli esperti nella maxi perizia.
Nella perizia, ad ogni modo, si segnala che “nulla” è dato sapere “sull’evoluzione delle condizioni cliniche” di 170 dei 205 anziani che passarono dal Trivulzio negli ospedali, data “l’assenza di documentazione” e la “impossibilità di risalire alla struttura ospedaliera” dove furono ricoverati.
I pm di Milano, nell’ottobre del 2021, avevano chiesto di archiviare l’inchiesta perché, spiegavano, non è stata “acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari, causalmente rilevanti nei singoli decessi, in ordine all’assistenza prestata”. Mancava in sostanza, per la Procura, la prova del “nesso causale” tra morti e le condotte dei vertici nella Rsa.
Anche se gli stessi pm evidenziavano una “sottovalutazione iniziale del rischio” dei contagi e una “carenza oggettiva” di interventi “per evitare il diffondersi dell’epidemia”. I periti mettono in luce che la carenza dei dispositivi di protezione, come le mascherine, ha riguardato in quel periodo tutte le “strutture sanitarie” d’Italia, ma al Pat “sembrerebbe essere stato disincentivato il loro utilizzo”, nonostante gli operatori “si fossero dotati autonomamente di mascherine”. Tra le altre “criticità” segnalate nella perizia anche la “mancata applicazione delle misure di distanziamento interpersonale” e “l’assembramento di pazienti, parenti, operatori“. Poi, il fatto che “i primi tamponi” vennero eseguiti “sui pazienti solo a far data dal 16 aprile 2020″.
Non può escludersi, inoltre, si legge ancora, che la “inevitabile diffusione del virus” al Pat abbia portato alla “assunzione di scelte poco idonee“, come lo “spostamento di personale da un reparto all’altro“. Il tutto mentre i vertici della struttura tendevano a “minimizzare” il rischio di contagio, anche attraverso i bollettini informativi. Per i periti, ad ogni modo, “nessun elemento di censura“ può essere addebitato “agli operatori” che hanno curato i singoli anziani.