Tre alternative alla plastica: le differenza tra biosorgenti, bioplastiche e biodegradabili

Tre alternative alla plastica: si tratta di biosorgenti, bioplastiche, biodegradabili. Tutti i dettagli e le differenze
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Biosorgente, biodegradabile, compostabile, dalle foglie di banana o dalle bucce di pomodoro: le alternative alla plastica di origine petrolifera sono in aumento, soprattutto negli imballaggi alimentari. Ma che impatto hanno sull’ambiente? Biosorgente significa prodotta con meno petrolio e più materiale agricolo non fossile, come i residui della canna da zucchero e l’amido di mais o di grano. Utilizzate principalmente per gli imballaggi, queste plastiche di origine biologica rappresentano meno dell’1% della produzione globale.

Tuttavia, nei laboratori di tutto il mondo si stanno accumulando scoperte su nuove possibili fonti da cui ricavare questo materiale, come bucce di pomodoro e foglie di banana. L’azienda chimica francese Arkema, per esempio, sta promuovendo il suo PBAT a base di olio di ricino, prodotto in India e utilizzato nelle calzature sportive e nelle attrezzature automobilistiche. Bananatex, sviluppato da un marchio svizzero e da partner taiwanesi, offre, invece, un tessuto di nuova generazione a base di foglie di banana che si biodegrada nel compost industriale. Ma “biosourcing non significa necessariamente [di origine biologica al 100%: in Europa, il requisito minimo per essere considerata una plastica biosourcing salirà al 60% nel gennaio 2025, rispetto all’attuale 50%”, avverte Christophe Doukhi de Boissoudy, presidente dell’associazione francese dei compostabili biosourcing.

Bioplastica

La definizione di “bioplastica” varia da Paese a Paese e può significare sia biosorgente sia compostabile. In Europa, questo termine fa riferimento a un polimero che è sia di origine biologica sia compostabile, nel suolo o a livello industriale. Non tutte le bioplastiche, infatti, si degradano completamente in condizioni naturali e talvolta devono essere compostate a livello industriale a temperature comprese tra i 35 e i 60°C. Tra queste bioplastiche figura il PLA, un polimero (acido polilattico) che un tempo era di origine fossile, ma che ora viene sviluppato a partire da biomasse vegetali fermentate (mais, barbabietola o zucchero di canna).

Il PLA è una delle bioplastiche più sviluppate attualmente in uso nel settore tessile e alimentare. “Siamo stupiti dalla velocità con cui la Cina sta portando avanti la legislazione per convertire i propri imballaggi al PLA, al fine di abbandonare le plastiche a base di petrolio, mentre l’Europa ristagna”, osserva Frederic Van Gansberghe, fondatore di Futerro, che ha uno stabilimento in Cina e ne aprirà uno in Francia nel 2026.

Impatto ambientale

Nel suo “Atlante della plastica”, la fondazione Heinrich Böll Stiftung stima che la maggior parte delle plastiche di origine biologica non siano né completamente biodegradabili né compostabili, e “in realtà aggirano solo il problema”. Per Nathalie Gontard, direttore della ricerca presso l’Istituto nazionale francese per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente (INRAE), le plastiche “biosourced”, ottenute da materie prime naturali, “non hanno alcun interesse” perché sono polimeri che non si degradano in condizioni naturali, ma si scompongono in micro- e poi nano-plastiche. “Biodegradabile”, inoltre. non è un termine ben definito, poiché alcuni lo usano per materiali che si degradano completamente in pochi mesi o anni, mentre altri per periodi molto più lunghi. Sebbene questi materiali contribuiscano alla riduzione delle emissioni di CO₂ del settore della plastica, gli esperti invitano a fare attenzione. “Qualsiasi richiesta aggiuntiva di terra per coltivare la materia prima per le plastiche biosorgenti può portare a cambiamenti nella destinazione d’uso dei terreni o alla deforestazione”, avverte l’Ocse, sottolineando che ciò provocherebbe un aumento delle emissioni di CO₂. “Sviluppando le bioplastiche, stiamo facendo ricadere l’onere della produzione di questi materiali su terreni agricoli che dovrebbero essere utilizzati per nutrire la popolazione”, insiste Pauline Debrabandere, dell’ONG Zero Waste.

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