Le temperature superficiali della Terra sono state eccezionalmente alte nel 2023, che si è rivelato l’anno più caldo mai registrato nelle osservazioni strumentali. Il record globale del 2023 è stato influenzato da anomalie regionali eccezionali, tra cui un’estensione minima record del ghiaccio marino antartico, il fenomeno El Niño in corso nel Pacifico equatoriale nel 2023/24, e una persistente anomalia calda nella superficie dell’Oceano Atlantico settentrionale.
Qual è il ruolo della variabilità naturale nei record a cui abbiamo assistito? Per tentare di rispondere a questa domanda, gli studiosi del clima Davide Zanchettin e Angelo Rubino dell’Università Ca’ Foscari Venezia hanno isolato e quantificato l’apporto di un ciclo naturale che porta la superficie dell’Atlantico Settentrionale ad alternare periodi di raffreddamento e riscaldamento nel giro di poche decadi, chiamato Variabilità Multidecadale Atlantica o, nell’acronimo inglese, AMV. Sebbene ci troviamo in un periodo “caldo” di questa variabilità, osservazioni e simulazioni numeriche dimostrano che il fenomeno è meno rilevante di quanto si pensasse per spiegare non solo le anomalie storiche recenti, ma anche quelle attese per il prossimo futuro. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista scientifica Communications Earth & Environment (Nature).
“Per spiegare l’anomalia climatica globale del 2023 – afferma Davide Zanchettin – dovevamo comprendere il ruolo relativo dei fattori esterni, principalmente l’aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, forse temporaneamente amplificato dall’eruzione sottomarina del vulcano Hunga-Tonga nel 2022, e delle dinamiche e fenomeni interni che contribuiscono alla variabilità climatica regionale. Storicamente la variabilità multidecadale è stata osservata come un’apparente oscillazione di 60 anni nelle temperature medie della superficie del mare dell’Atlantico settentrionale, sovrapposta a una tendenza di riscaldamento a lungo termine, con due fasi fredde interdecadali centrate approssimativamente tra il 1900-1925 e il 1965-1995, e tre fasi calde interdecadali centrate circa tra il 1870-1900, 1930-1960 e dal 1995 fino ad oggi. Mentre la visione classica prevede un riscaldamento progressivo costante (trend lineare) della superficie dell’Atlantico Settentrionale nel periodo storico, che comporta oscillazioni dell’AMV con ampiezza pressoché costante, nel nostro studio dimostriamo che dal 1970 circa è in atto un’accelerazione di questo riscaldamento, che comporta che la fase calda dell’AMV in corso ha un’ampiezza minore di quanto si pensasse, rivelando quindi una natura fortemente attenuata del fenomeno”.
“Nonostante le incertezze – aggiunge – se la nostra interpretazione dell’AMV è corretta, è solo una questione di tempo – meno di un decennio – affinché la predominanza del riscaldamento accelerato dell’Atlantico settentrionale sulla variabiltà naturale diventi inconfutabile”.
Lo schema AMV di riscaldamento e raffreddamento può influenzare il clima e il tempo atmosferico non solo nella regione atlantica, ma anche in Nord America ed Europa. Ad esempio, durante le fasi più calde, potremmo vedere più uragani e estati più calde, mentre durante le fasi più fredde, gli inverni potrebbero essere più freddi o piovosi.
Guardando al futuro, indipendentemente dagli scenari di emissioni, i modelli suggeriscono che le temperature superficiali del Nord Atlantico continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Anche una potenziale fase fredda dell’AMV, infatti, non riuscirà a compensare il riscaldamento accelerato, sottolineando la necessità di agire urgentemente per affrontare gli impatti più ampi del riscaldamento globale.
“Sappiamo che storicamente l’AMV ha modulato i tassi decennali di innalzamento del livello del mare nel Mar Mediterraneo – aggiunge Rubino – e una sua possibile attenuazione nel prossimo futuro potrebbe avere importanti ripercussioni, ad esempio, sull’evoluzione del fenomeno dell’acqua alta a Venezia”.