Alla vigilia di COP29, la Conferenza ONU sul clima che si terrà a partire dall’11 novembre a Baku, in Azerbaijan, il tema della finanza climatica si profila come uno dei più rilevanti e dibattuti. Con l’obiettivo di superare il precedente impegno di 100 miliardi di dollari all’anno, si prospetta ora un nuovo traguardo finanziario, con cifre che potrebbero arrivare fino a mille miliardi di dollari annuali per sostenere le necessità dei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, stime recenti evidenziano che il fabbisogno reale di queste nazioni potrebbe superare i 5,8 mila miliardi di dollari entro il 2030, sollevando la questione: chi si assumerà il carico di questo finanziamento?
La finanza climatica, pur priva di una definizione univoca, può essere analizzata sotto quattro prospettive principali: a livello globale, dai Paesi più ricchi verso quelli in via di sviluppo, attraverso la cooperazione Sud-Sud tra Paesi in via di sviluppo e, infine, a livello nazionale. La dimensione globale rappresenta il contesto più ampio, comprendendo tutte le risorse mobilitate da ciascun Paese sia internamente che verso l’esterno. Il nuovo obiettivo finanziario (New Quantified Collective Goal, o NCQG) sarà invece focalizzato sui flussi finanziari che vanno dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, in linea con l’articolo 9 dell’Accordo di Parigi.
Tuttavia, alcuni attori stanno proponendo una visione più inclusiva, invocando anche l’articolo 2.1(c) dell’Accordo di Parigi. Questo articolo richiede infatti a tutti i Paesi di orientare i flussi finanziari verso uno sviluppo sostenibile e a basse emissioni, senza specificare obblighi esclusivi per Paesi ricchi o in via di sviluppo. Sfruttando questa formulazione, i Paesi sviluppati spingono affinché anche i Paesi in via di sviluppo, specialmente quelli con emissioni più alte, contribuiscano al nuovo obiettivo. D’altro canto, i Paesi in via di sviluppo sostengono che l’NCQG si fondi esclusivamente sull’articolo 9 e che l’articolo 2.1 rappresenti un contesto separato. Questa divergenza tra le due interpretazioni apre la strada a ulteriori negoziati durante COP29.
La questione è quindi se sia effettivamente necessario ampliare la base di contribuenti del nuovo NCQG e per quale motivo i Paesi sviluppati richiedano un’assunzione di responsabilità anche ai Paesi emergenti. Da un lato, le nazioni più ricche sottolineano che il cambiamento climatico è una sfida globale che richiede sforzi congiunti e proporzionati anche da chi contribuisce in modo crescente alle emissioni globali. Dall’altro, i Paesi in via di sviluppo difendono il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate,” ritenendo di non poter sostenere un impegno che metterebbe a rischio le proprie priorità di crescita economica.
COP29 sarà dunque un momento cruciale per ridefinire la governance della finanza climatica. Trovare un equilibrio tra il sostegno ai Paesi più vulnerabili e l’impegno di tutti per un’economia a basse emissioni sarà essenziale per affrontare le sfide future in modo equo e sostenibile.