Un nuovo e ambizioso studio pubblicato su Nature Communications rimescola le carte sulla possibilità di vita extraterrestre nelle orbite delle stelle nane M, il tipo di stella più comune dell’universo. Queste stelle, note per la loro massa ridotta e la luminosità fioca, rappresentano circa il 70% delle stelle della Via Lattea e ospitano un gran numero di pianeti rocciosi dalle caratteristiche affascinanti. Nonostante la predominanza delle nane M, gli scienziati hanno tradizionalmente ritenuto improbabile la presenza di atmosfere stabili attorno ai loro pianeti, poiché la radiazione e l’attività stellare intensa di questi corpi celesti sembrerebbero in grado di annientare qualsiasi possibile atmosfera. Tuttavia, grazie a simulazioni avanzate e a una revisione delle modalità di interazione tra pianeti e le loro stelle, i ricercatori propongono un nuovo scenario in cui la vita aliena potrebbe essere possibile in ambienti fino a ora ritenuti troppo ostili.
Le nane M: giganti cosmici mascherate e la sfida dell’abitabilità
Conosciute anche come nane rosse, le stelle nane M costituiscono la maggior parte delle stelle della nostra galassia. Rispetto al nostro Sole, hanno masse e dimensioni nettamente inferiori e una luminosità spesso meno di un decimo di quella solare. Questa peculiarità comporta che la zona abitabile, ossia la regione orbitale in cui le temperature permettono la presenza di acqua liquida, sia molto più vicina alla stella rispetto a quanto avviene nel Sistema Solare. Ma c’è una complicazione: pur essendo meno energetiche in termini di luce visibile, le nane M sono estremamente attive sul piano magnetico e irradiano enormi quantità di radiazioni ultraviolette e raggi X. Questo comportamento, dovuto alla loro giovane età o alla loro natura altamente magnetica, induce forti brillamenti stellari che investono i pianeti vicini con un’intensità devastante, in grado di “spazzare via” l’atmosfera di un giovane pianeta roccioso in pochi milioni di anni.
Gli studiosi si sono quindi a lungo chiesti se tali condizioni avrebbero consentito a questi pianeti di mantenere un’atmosfera che potesse sostenere la vita. Le intense radiazioni UV e i flussi energetici dalle nane M sembrano in grado di erodere velocemente le particelle più leggere dall’atmosfera planetaria, come l’idrogeno, e di distruggere qualsiasi chance di abitabilità. Ma questo nuovo studio sfida tale visione: il team di ricercatori ha modellato una fase successiva, in cui i pianeti potrebbero rigenerare un’atmosfera secondaria in grado di resistere alle condizioni estreme grazie alla formazione di molecole pesanti e più stabili come l’acqua.
Una nuova speranza per la vita aliena
Il punto cruciale dello studio si basa sulla simulazione dell’intero percorso evolutivo dei pianeti in orbita attorno alle nane M, partendo da un’origine geologicamente turbolenta, passando per lo stato fuso e arrivando alla formazione di una crosta solida. I modelli suggeriscono che, mentre la prima atmosfera, spesso composta in gran parte da idrogeno, verrebbe distrutta rapidamente, potrebbe formarsi una seconda atmosfera più resistente, un processo che ridefinirebbe le prospettive di abitabilità.
Questa seconda atmosfera si formerebbe grazie a un processo detto degassamento interno, un fenomeno in cui gas volatili intrappolati all’interno del mantello planetario emergono attraverso l’attività vulcanica, rilasciando elementi come l’anidride carbonica, il vapore acqueo e altri gas. Secondo le simulazioni, una volta stabilizzatasi, questa atmosfera secondaria potrebbe essere abbastanza densa e protettiva da sostenere l’acqua liquida sulla superficie del pianeta. “Una delle domande più intriganti in questo momento nell’astronomia degli esopianeti è: i pianeti rocciosi in orbita attorno a stelle nane M possono mantenere atmosfere che potrebbero sostenere la vita?” afferma l’assistente professore Joshua Krissansen-Totton, dell’Università di Washington. “I nostri risultati danno motivo di aspettarsi che alcuni di questi pianeti abbiano un’atmosfera, il che aumenta significativamente le possibilità che questi sistemi planetari comuni possano sostenere la vita“.
Il ciclo chimico avviato dal degassamento interno consente ai gas rilasciati di combinarsi per formare un’atmosfera robusta, caratterizzata da un’elevata concentrazione di acqua e anidride carbonica. L’acqua, in particolare, svolgerebbe un ruolo cruciale nella stabilità dell’atmosfera, poiché la sua densità e la capacità di assorbire radiazioni la rendono ideale per resistere alle intemperie radiative della stella.
La zona abitabile: il delicato equilibrio tra distanza e protezione atmosferica
Le prospettive di abitabilità su un pianeta orbitante attorno a una nana M dipendono fortemente dalla distanza tra il pianeta e la stella, cioè dalla sua posizione nella zona abitabile. In questa regione, le temperature non sono né troppo elevate da provocare l’evaporazione completa dell’acqua, né troppo basse da causarne il congelamento. Nelle fasi iniziali della formazione del pianeta, il calore derivante dalla vicinanza alla stella comporta la perdita della prima atmosfera, composta principalmente di idrogeno. Ma nei pianeti che si trovano a una distanza ideale, dove la temperatura è moderata, questo idrogeno potrebbe combinarsi con l’ossigeno per formare acqua.
La formazione dell’acqua avvierebbe un effetto domino sulla composizione atmosferica. Una volta stabilizzata, l’acqua permetterebbe l’accumulo di gas pesanti, come il biossido di carbonio e il metano, che consoliderebbero lo spessore dell’atmosfera, fungendo da barriera contro la dispersione. In questo modo, i pianeti moderatamente lontani dalla loro nana M, con un ambiente abbastanza fresco da favorire la condensazione dell’acqua, potrebbero avere atmosfere stabili nel tempo, aprendo le porte a condizioni abitabili.
Il sistema TRAPPIST-1: il miglior candidato per la ricerca della vita aliena
Un esempio lampante delle possibilità di abitabilità attorno alle nane M è rappresentato dal sistema TRAPPIST-1, un gruppo di sette pianeti rocciosi che orbitano attorno a una stella nana a circa 40 anni luce dalla Terra. Scoperto nel 2017, TRAPPIST-1 è divenuto rapidamente uno degli obiettivi principali per gli astronomi, essendo uno dei sistemi noti più ricchi di pianeti simili alla Terra. Il James Webb Space Telescope (JWST), recentemente operativo, sta già raccogliendo dati su TRAPPIST-1, e i primi risultati indicano che i pianeti più vicini alla stella sono privi di atmosfere significative. “È più facile per il JWST osservare i pianeti più caldi più vicini alla stella perché emettono più radiazione termica, che non è così influenzata dall’interferenza della stella. Per quei pianeti abbiamo una risposta abbastanza inequivocabile: non hanno un’atmosfera spessa“, spiega Krissansen-Totton.
Tuttavia, i pianeti situati a una distanza maggiore dalla stella, e quindi con temperature più moderate, potrebbero possedere atmosfere stabili, secondo quanto suggerito dal modello. Questi mondi temperati rappresentano i candidati ideali per ulteriori osservazioni, in quanto le loro condizioni sembrerebbero in grado di sostenere cicli idrici e atmosferici equilibrati. Lo studio suggerisce che gli strumenti del JWST dovrebbero quindi focalizzarsi sui pianeti temperati del sistema TRAPPIST-1 per valutare la possibile presenza di vapore acqueo e gas traccia di processi biologici.
Implicazioni per l’astrobiologia e il futuro della ricerca
Se confermata, la scoperta dell’abitabilità attorno alle nane M modificherebbe radicalmente le previsioni sulla distribuzione della vita aliena nell’universo. Dato che le nane M costituiscono una larga parte delle stelle nella Via Lattea, la presenza di atmosfere resistenti su una frazione dei loro pianeti significherebbe che miliardi di mondi abitabili potrebbero esistere solo nella nostra galassia. La ricerca di vita aliena si troverebbe quindi ad ampliare il proprio raggio d’azione, considerando molti più candidati rispetto a quelli attualmente studiati attorno a stelle simili al Sole.
Per esplorare ulteriormente la possibilità di vita aliena attorno a questi mondi, sarà fondamentale il supporto delle tecnologie di nuova generazione. Il James Webb Space Telescope è solo uno dei numerosi strumenti avanzati che stanno spingendo l’astrobiologia verso nuovi confini. Nei prossimi anni, il telescopio Extremely Large Telescope(ELT), in costruzione sulle Ande cilene, potrebbe essere determinante per analizzare le atmosfere di esopianeti vicini con una precisione mai raggiunta prima. Grazie alla sua enorme apertura, l’ELT sarà in grado di identificare firme chimiche specifiche, come ossigeno e metano, possibili indicatori di processi biologici.
L’evoluzione della tecnologia e i nuovi modelli teorici come quelli presentati in questo studio portano la scienza a un punto di svolta nella ricerca di vita extraterrestre, suggerendo che mondi un tempo considerati troppo estremi potrebbero effettivamente ospitare le condizioni necessarie per il sostentamento della vita.