Negli ultimi 50 anni, il mondo naturale ha subito un calo allarmante della biodiversità, e i dati sono chiari: le popolazioni di vertebrati selvatici monitorati sono diminuite del 73% tra il 1970 e il 2020. Questo è il dato principale che emerge dal “Living Planet Report 2024” pubblicato dal WWF, un’analisi che si basa sul Living Planet Index (LPI) sviluppato dalla Zoological Society of London (ZSL). L’indice tiene traccia delle variazioni di quasi 35.000 popolazioni appartenenti a 5.495 specie di vertebrati, fornendo una visione globale dello stato della fauna selvatica sul nostro pianeta.
Il declino dei vertebrati selvatici
Il declino più drammatico si osserva negli ecosistemi di acqua dolce, dove le popolazioni di vertebrati sono crollate dell’85%. Questi ambienti, che ospitano alcune delle specie più minacciate del pianeta, sono stati particolarmente colpiti dalla perdita di habitat e dall’inquinamento. I sistemi fluviali, lacustri e palustri sono spesso trascurati nelle strategie di conservazione, nonostante il loro ruolo cruciale nel mantenimento della biodiversità globale.
Tra le specie più emblematiche che hanno subito drastici cali vi è l’inia, il delfino di fiume dell’Amazzonia, le cui popolazioni sono diminuite del 65% nel Rio delle Amazzoni. Anche la sotalia, un altro piccolo cetaceo d’acqua dolce presente nella riserva di Mamirauá in Brasile, ha visto una riduzione del 75% tra il 1994 e il 2016. Eventi estremi legati al cambiamento climatico hanno aggravato questa situazione: nel solo 2023, durante un periodo di siccità e caldo estremo, oltre 330 inie sono morte in due laghi amazzonici.
Ecosistemi terrestri e marini: un declino inesorabile
Se gli ambienti d’acqua dolce hanno subito il colpo più duro, gli ecosistemi terrestri e marini non sono stati risparmiati. Le popolazioni di vertebrati terrestri sono diminuite del 69%, mentre quelle marine hanno registrato una riduzione del 56%. Questi numeri allarmanti sottolineano come la crisi della biodiversità non conosca confini: dalle foreste pluviali tropicali alle barriere coralline, ogni ecosistema è stato colpito dall’azione umana.
Nel caso degli ecosistemi terrestri, la deforestazione e la conversione del suolo per l’agricoltura sono le principali cause di perdita di habitat, specialmente in aree come l’Amazzonia e il Sud-Est asiatico. Il degrado degli habitat marini, invece, è amplificato dalla pesca eccessiva, dall’inquinamento da plastica e dal riscaldamento degli oceani, che minaccia le barriere coralline e altre comunità marine fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema globale.
La minaccia del cambiamento climatico: America Latina in prima linea
Il cambiamento climatico è un altro fattore chiave che sta accelerando la crisi della biodiversità, soprattutto nelle regioni più vulnerabili. Il rapporto evidenzia che l’America Latina e i Caraibi sono tra le aree più colpite al mondo, con un calo medio del 95% nelle popolazioni di vertebrati. Le temperature in aumento, i cambiamenti nei modelli di precipitazione e l’aumento degli eventi estremi stanno trasformando gli ecosistemi di queste regioni in modi irreversibili.
Un esempio lampante di questo impatto è la tartaruga marina embricata, una specie minacciata che ha subito un declino del 57% tra il 1990 e il 2018 nella popolazione di femmine nidificanti sull’isola Milman, parte della Grande Barriera Corallina in Australia. Questo declino è strettamente legato all’aumento delle temperature globali, che influiscono negativamente sul ciclo di vita di molte specie marine.
Le cause della crisi: un sistema alimentare insostenibile
Alla base di questa crisi globale della biodiversità vi è il nostro sistema alimentare, considerato la principale minaccia per le popolazioni di specie selvatiche. La conversione di vaste aree di foreste, praterie e altri ecosistemi naturali in terreni agricoli ha ridotto drasticamente gli habitat disponibili per la fauna selvatica. Oltre a ciò, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, la diffusione di specie invasive e l’emergere di nuove patologie contribuiscono a peggiorare la situazione.
Il “Living Planet Report 2024” non lascia dubbi: la pressione che l’attività umana esercita sugli ecosistemi naturali è insostenibile. Il degrado degli habitat non solo minaccia la fauna selvatica, ma compromette anche i servizi ecosistemici di cui dipendiamo, come la regolazione del clima, la purificazione dell’acqua e la fertilità del suolo.
Segnali di speranza: conservazione e recupero
Nonostante il quadro globale sia desolante, ci sono anche segnali di speranza. Il rapporto mette in luce come alcune popolazioni animali siano riuscite a stabilizzarsi o addirittura a crescere grazie agli sforzi di conservazione. Un esempio positivo è rappresentato dal gorilla di montagna, la cui sottopopolazione nel massiccio del Virunga, in Africa orientale, è aumentata di circa il 3% all’anno tra il 2010 e il 2016. Questo risultato è il frutto di iniziative di protezione attiva, che includono la tutela degli habitat, la riduzione del bracconaggio e il coinvolgimento delle comunità locali.
Un altro caso di successo è il bisonte europeo, una specie che era sull’orlo dell’estinzione ma che oggi sta facendo un ritorno nelle foreste e praterie dell’Europa centrale. Grazie a programmi di reintroduzione e conservazione, le popolazioni di questo possente erbivoro stanno gradualmente ripopolando aree da cui erano scomparse per secoli.