La COP29, che si sta svolgendo a Baku, rappresenta uno snodo cruciale nella lotta globale contro il cambiamento climatico. Non solo per i temi legati alle emissioni di gas serra, ma anche per la finanza climatica, uno degli aspetti più discussi e, al contempo, controversi di questi negoziati internazionali. Da una parte, la necessità di garantire finanziamenti adeguati per i Paesi vulnerabili, che stanno subendo i colpi più devastanti del riscaldamento globale, dall’altra, la questione centrale su come questi fondi debbano essere raccolti, distribuiti e utilizzati, sollevando più di un interrogativo su ciò che sia davvero necessario per una transizione equa e realistica verso un mondo a basse emissioni.
Al centro di tutto questo, emerge una tensione che, purtroppo, non è nuova: quella tra gli ideali e le necessità concrete, tra il piano ambizioso di un futuro senza combustibili fossili e la realtà di un mondo che, almeno nel breve periodo, non può prescindere da soluzioni pragmatiche e scientificamente fondate. La transizione energetica, infatti, non è una questione che può essere affrontata con una visione ideologica o con slogan che mirano a eliminare le fonti di energia tradizionali senza offrire alternative realiste. Il rischio di compromettere il futuro di interi Paesi, senza aver prima costruito le basi per un cambiamento sostenibile e accessibile, è una realtà che non possiamo permetterci di ignorare.
Finanza climatica: cifre enormi, ma soluzioni ancora lontane
Durante questa COP29, il negoziato sulla finanza climatica è uno dei temi più discussi e problematici. Le stime parlano chiaro: il mondo avrebbe bisogno di almeno 6.500 miliardi di dollari all’anno per affrontare la crisi climatica, ma la sfida più grande rimane la divisione sulla destinazione di questi fondi. Per i paesi in via di sviluppo, che stanno già vivendo gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici, è stato richiesto un fondo di 1.300 miliardi di dollari all’anno. Una cifra che, seppur impressionante, è ritenuta necessaria per aiutarli a fronteggiare le sfide dell’adattamento e per garantire la loro transizione verso un futuro più sostenibile. Eppure, la risposta dei Paesi donatori è tutt’altro che favorevole. La realtà dei fatti è che i Paesi sviluppati, che già faticano a raccogliere i 100 miliardi di dollari previsti dall’Accordo di Parigi, non sono pronti ad accettare aumenti significativi.
Il Gruppo di esperti indipendenti sulla finanza climatica, che da anni assiste le COP, ha messo in evidenza come la sfida non risieda solo nell’ammontare dei fondi, ma anche nella modalità con cui questi devono essere erogati. Mentre i paesi in via di sviluppo chiedono che questi finanziamenti siano principalmente a fondo perduto, ovvero sotto forma di “grant“, i paesi sviluppati temono che ciò possa rappresentare una spesa difficile da giustificare nei propri bilanci. Se i fondi fossero gestiti come prestiti a tassi agevolati, questi Paesi potrebbero vedere una maggiore disponibilità a finanziare i progetti, ma l’efficacia di tale modello sarebbe tutta da valutare. Inoltre, resta irrisolto il dilemma su quale parte della finanza debba essere destinata alla mitigazione delle emissioni, interesse primario per i Paesi industrializzati, e quale alla mitigazione degli effetti, cioè l’adattamento ai cambiamenti climatici, per le nazioni vulnerabili.
La retorica della “decarbonizzazione totale”: una visione irrealistica
Un altro nodo cruciale che emerge da questa COP29 riguarda la cosiddetta “decarbonizzazione totale“. La retorica dei combustibili fossili è sempre stata un tema centrale nei negoziati internazionali sul clima, ma la questione va oltre la semplice eliminazione delle fonti energetiche tradizionali. L’idea di un mondo senza carbone, petrolio e gas potrebbe sembrare nobile, ma si scontra con una realtà ben più complessa. I Paesi in via di sviluppo, che rappresentano la maggior parte delle economie emergenti, si trovano in una posizione estremamente difficile. Questi Paesi hanno bisogno di energia per alimentare la crescita economica, costruire infrastrutture, combattere la povertà e garantire benessere ai propri cittadini. E, almeno nel breve termine, non possono permettersi il lusso di abbandonare i combustibili fossili senza una solida alternativa.
La realtà è che la transizione energetica deve essere affrontata in modo pragmatico. L’eliminazione immediata dei combustibili fossili non è una soluzione realistica. La visione ideologica della “decarbonizzazione totale” può diventare dannosa, impedendo a queste nazioni di accedere a fonti energetiche affidabili, a meno che non vengano immediatamente messe in campo soluzioni alternative e concrete. Se l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni senza compromettere la capacità produttiva e lo sviluppo sociale, è necessario rivedere le posizioni ideologiche e abbracciare soluzioni che, pur garantendo basse emissioni, non penalizzino le economie.
Il nucleare: una risorsa dimenticata ma indispensabile
Nel contesto della transizione energetica, l’approccio più radicale che propone l’eliminazione totale dei combustibili fossili rischia di essere irrealistico. Infatti, le soluzioni devono tener conto delle necessità immediati dei Paesi più vulnerabili, che non possono permettersi una rapida dismissione dei combustibili fossili senza alternative praticabili. L’energia nucleare, seppur spesso ignorata in favore delle energie rinnovabili, emerge come una delle risorse più promettenti per garantire un approvvigionamento energetico stabile e a basse emissioni, capace di rispondere a una domanda crescente senza compromettere lo sviluppo economico.
La posizione italiana su questo tema si distingue per il pragmatismo. Durante la COP29, il premier Giorgia Meloni ha sottolineato con forza che “non c’è alternativa ai combustibili fossili“, ma che l’approccio alla decarbonizzazione non deve essere ideologico. In un intervento dal palco di Baku, Meloni ha ribadito l’importanza di un’azione che sfrutti “tutte le tecnologie a disposizione“. Secondo il premier italiano, la transizione energetica, pur dovendo essere incentrata sulla riduzione delle emissioni, non può trascurare l’uso delle risorse esistenti, tra cui il nucleare, che potrebbe fornire una fonte di energia stabile e pulita per affrontare le sfide future.
La fusione nucleare, in particolare, è stata definita da Meloni come una “soluzione per garantire energia illimitata in futuro“, indispensabile per soddisfare le crescenti necessità di una popolazione mondiale in espansione. In tal senso, l’Italia si sta battendo per sostenere questa tecnologia nel contesto delle trattative internazionali, consapevole che la collaborazione globale sarà fondamentale per affrontare le sfide energetiche del futuro.
Cosa stiamo negoziando?
La COP29, nonostante gli sviluppi marginali come l’approvazione degli standard sui crediti di carbonio, si sta rivelando una conferenza bloccata da un approccio ideologico che continua a soffermarsi sui combustibili fossili. In un dibattito che si concentra più sulla demonizzazione delle fonti energetiche tradizionali che sulla ricerca di soluzioni concrete, si ignora una verità innegabile: i combustibili fossili sono ancora irrinunciabili. La loro sostituzione completa, almeno nel breve periodo, è semplicemente irrealistica. Il mondo è troppo dipendente da queste risorse per un cambiamento immediato senza compromettere il già fragile equilibrio economico, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Le tecnologie emergenti, come il nucleare, rimangono ignorate, mentre la retorica ideologica rischia di rallentare una transizione che, invece, dovrebbe essere guidata dal pragmatismo e dalla ricerca di soluzioni reali e sostenibili. Se non si accetta questa realtà, la COP29 rischia di finire come la COP28, con più parole che fatti, e il mondo, ancora una volta, resterà in attesa di risposte concrete.