L’attenzione è rivolta alla finanza climatica: quest’anno, i negoziati sul clima delle Nazioni Unite si concentrano sull’attivazione dei trilioni di dollari necessari ai Paesi in via di sviluppo per affrontare la crisi climatica. L’obiettivo principale della COP29, che si svolgerà a Baku a novembre sotto la presidenza dell’Azerbaigian, è chiarire quanto denaro i Paesi sviluppati si impegneranno a destinare ai Paesi vulnerabili per aiutarli ad affrontare le sfide legate a un clima estremo.
Cos’è la finanza per il clima
Non esiste una definizione universalmente accettata, ma in senso ampio, la “finanza per il clima” include ogni somma di denaro, sia pubblica che privata, utilizzata per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di “rendere i flussi finanziari compatibili con (…) uno sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici” (articolo 2.1C). Questo concetto abbraccia un ampio ventaglio di finanziamenti destinati a promuovere lo sviluppo economico a basse emissioni di carbonio e l’adattamento ai cambiamenti climatici: energie rinnovabili come eolica e solare, veicoli elettrici, pratiche agricole sostenibili, riforestazione, miglioramento dell’efficienza energetica nelle abitazioni, accesso all’acqua, servizi igienico-sanitari e sistemi sanitari in grado di gestire eventi estremi come ondate di calore e alluvioni. Tuttavia, la mancanza di standard rigorosi per definire la finanza “verde” rende spesso confusa la distinzione tra aiuti allo sviluppo e finanziamenti climatici. Ad esempio, un sussidio per un hotel a basso consumo idrico può essere considerato un finanziamento per il clima? Le COP non hanno mai affrontato questa questione.
Quanto serve la finanza climatica
Uno studio della Climate Policy Initiative ha calcolato il fabbisogno globale di “finanza climatica” in 10.000 miliardi di dollari all’anno tra il 2030 e il 2050, rispetto ai circa 1.300 miliardi di dollari spesi nel 2021/2022. Il termine “finanza climatica” viene utilizzato frequentemente nei contesti delle Nazioni Unite e dei media per riferirsi alle difficoltà che i Paesi in via di sviluppo incontrano nell’ottenere i finanziamenti internazionali necessari per una “giusta transizione” verso un futuro sostenibile e per affrontare i disastri climatici. Secondo esperti delle Nazioni Unite, il fabbisogno di questi Paesi (esclusa la Cina) è stimato in 2.400 miliardi di dollari all’anno fino al 2030, mentre nel 2019 sono stati mobilitati solo 550 miliardi di dollari.
Chi paga la finanza climatica
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), adottata a Rio nel 1992, ha identificato i Paesi responsabili della fornitura di assistenza finanziaria al resto del mondo in virtù della loro responsabilità storica. Tra questi ci sono Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, Regno Unito, Canada, Svizzera, Turchia, Norvegia, Islanda, Nuova Zelanda e Australia, i quali si sono impegnati nel 2009 ad aumentare gli aiuti per il clima fino a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, impegno da mantenere fino al 2025. Tuttavia, non sono riusciti a raggiungere questo obiettivo fino al 2022, il che ha amplificato il divario diplomatico tra Nord e Sud. Alla COP29, i firmatari dell’Accordo di Parigi dovrebbero concordare un nuovo obiettivo oltre il 2025, con l’India che ha proposto un fabbisogno di 1.000 miliardi di dollari all’anno. Questa proposta rappresenta una provocazione per i Paesi ricchi, che fanno notare di essere responsabili solo del 30% delle emissioni storiche di gas serra e chiedono di includere anche la Cina e gli Stati del Golfo tra i donatori.
Dove trovare i soldi
I 100 miliardi di dollari di aiuti sono stati oggetto di critiche, poiché due terzi di essi sono sotto forma di prestiti, talvolta a tassi agevolati, ma spesso accusati di aggravare il debito dei Paesi poveri. Anche se l’obiettivo finanziario futuro aumenterà, rimarrà comunque al di sotto del fabbisogno stimato, ma il Sud attribuisce un grande valore simbolico a questa cifra, ritenendola una leva per sbloccare ulteriori flussi finanziari, in particolare quelli privati. La diplomazia finanziaria è attiva anche presso la Banca Mondiale, il FMI e il G20, la cui presidenza brasiliana punta a istituire una tassa globale sui Paesi più ricchi. Diverse idee promosse dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, come tasse innovative su aviazione e trasporto marittimo, sono in fase di studio, in particolare da parte di un gruppo di lavoro avviato da Francia, Kenya e Barbados. Un’altra proposta dall’Azerbaigian invita i produttori di combustibili fossili a contribuire a un nuovo fondo “di concetto” per i Paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda il fondo “per le perdite e i danni”, istituito alla COP28 per sostenere i Paesi poveri colpiti da disastri climatici, questo è ancora lontano dall’essere operativo, con solo 661 milioni di dollari di promesse finora.