Il vertice COP16 dell’ONU sulla desertificazione ospitato dall’Arabia Saudita si è concluso senza un accordo su una risposta giuridicamente vincolante alla siccità, mentre il processo delle Nazioni Unite fatica a superare le divergenze con i Paesi produttori di combustibili fossili. Ciò segue il fallimento nel raggiungere una risoluzione finale al vertice ONU sulla biodiversità in Colombia, dove i colloqui sono andati oltre il previsto, mentre l’ultimo round del trattato delle Nazioni Unite sulla plastica in Corea del Sud è stato ugualmente ostacolato dalle obiezioni di Paesi, tra cui Arabia Saudita e Russia.
Tenutasi sotto il tema “La nostra terra. Il nostro futuro” per due settimane a Riyadh, la COP16 è stata la più grande conferenza dell’ONU sulla Terra fino ad oggi, con la partecipazione di quasi 200 Paesi, della società civile e di gruppi di popolazioni indigene. Si è conclusa nella mattinata di sabato 14 dicembre, più tardi della chiusura programmata per venerdì.
I Paesi più poveri hanno spinto per un accordo vincolante sulla siccità. In particolare, i Paesi africani hanno spinto per l’istituzione di un protocollo sulla siccità giuridicamente vincolante, mentre il blocco degli Stati Uniti e dell’Unione europea ha cercato una soluzione che fosse meno onerosa economicamente, ma che fosse pronta per essere operativa.
Il Segretario esecutivo della Convenzione ONU per la lotta alla desertificazione (UNCCD), Ibrahim Thiaw, ha detto all’ultima plenaria che “le parti hanno bisogno di più tempo per concordare sul modo migliore per affrontare il problema critico della siccità”. Thiaw ha spiegato che sono state gettate le basi per un futuro regime di risposta globale alla siccità, con le discussioni che proseguiranno alla prossima COP17, in programma in Mongolia nel 2026.
La Riyadh Global Drought Resilience Partnership
Il risultato più significativo dell’evento ospitato dall’Arabia Saudita sono stati gli oltre 12 miliardi di dollari in nuovi impegni per il ripristino del territorio e la preparazione alla siccità sotto l’egida della Riyadh Global Drought Resilience Partnership. Il risultato ha evidenziato due sorprendenti dimensioni del ruolo dell’Arabia Saudita sulle questioni ambientali. Sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman, il Paese ha cercato di essere un attore importante nell’arena globale, lanciando iniziative locali e regionali volte a ridurre le emissioni di gas serra, ma senza frenare la produzione di petrolio e gas. Le iniziative verdi saudite mirano a ridurre le emissioni di carbonio di 278 mega tonnellate all’anno entro il 2030 e a raggiungere le zero emissioni nette entro il 2060.
Il Paese mediorientale ha lanciato anche una Green Middle East Initiative, che ha fissato l’obiettivo di tagliare oltre il 60% delle emissioni dalla produzione regionale di idrocarburi e piantare 50 miliardi di alberi.
Arabia Saudita accusata di ostacolare le discussioni sul clima
Ma poiché l’Arabia Saudita continua a fare affidamento sui ricavi del petrolio per finanziare una miriade di progetti lanciati negli ultimi anni come parte di un piano per diversificare la sua economia, il Paese è stato ripetutamente accusato dai negoziatori internazionali di aver ostacolato le discussioni sulla lotta al cambiamento climatico. Riyadh è accusata non solo di aver tentato di far crollare gli sforzi per l’abbandono dei combustibili fossili concordati lo scorso anno alla COP28, ma anche di aver bloccato l’azione su questioni più ampie, come l’impatto di genere del cambiamento climatico alla COP29 di Baku tenutasi a novembre.
L’unico riferimento diretto al cambiamento climatico nella plenaria finale della COP16 è avvenuto quando il Segretario esecutivo dell’ONU, Thiaw, ha parlato delle “sfide interconnesse, come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’insicurezza alimentare, la migrazione e la sicurezza globale”.
I funzionari sauditi hanno contestato le accuse che sta cercando di bloccare il consenso. Sottolineano l’organizzazione di eventi, come la COP16, come dimostrazione del loro impegno nei confronti delle questioni ambientali. “Non è un segreto che l’economia dell’Arabia Saudita si basi fortemente sulle entrate del petrolio, e c’è sicuramente un’enorme pressione per affrontare l’uso del petrolio per ridurre le emissioni di CO2“, aveva detto ad inizio anno Osama Faqeeha, vice ministro saudita dell’Ambiente. “Eppure – aveva aggiunto – l’Arabia Saudita si sta impegnando in modo costruttivo con la comunità globale. Abbiamo firmato l’accordo di Parigi”. “Quello che stiamo dicendo è che il petrolio non è il diavolo, è la materia prima. Sono le emissioni che bisogna cercare di affrontare“, ha aggiunto il Ministro saudita, evidenziando il piano del suo Paese di generare metà dell’energia da fonti rinnovabili entro il 2030.
Diversi Stati occidentali hanno però affermato che l’Arabia Saudita ha cercato di spingere per impegni deboli sul cambiamento climatico sia nei colloqui del G20 che per il Patto delle Nazioni Unite per il futuro, così come in altre discussioni internazionali.