Nel 2020, la missione Hayabusa 2 della JAXA (Japan Aerospace Exploration Agency) ha raggiunto un traguardo straordinario: riportare sulla Terra i primi campioni dell’asteroide Ryugu, uno degli oggetti più enigmatici e antichi del nostro Sistema Solare. Questi frammenti, del peso complessivo di soli cinque grammi, rappresentano un tesoro scientifico inestimabile, capace di fornire informazioni cruciali sui processi chimici e fisici che hanno caratterizzato la formazione del nostro sistema planetario. Tuttavia, a due anni dal loro arrivo, una scoperta apparentemente rivoluzionaria è stata oscurata da un grande equivoco: tracce di materia organica individuate nei campioni sono state inizialmente interpretate come segni di vita aliena, per poi rivelarsi il risultato di una contaminazione terrestre.
La missione Hayabusa 2: un successo senza precedenti
Lanciata nel dicembre 2014, la sonda Hayabusa 2 ha viaggiato nello spazio per quasi quattro anni prima di raggiungere Ryugu, un asteroide di tipo C situato a circa 300 milioni di chilometri dalla Terra. Questo corpo celeste, caratterizzato da una superficie ricca di carbonio e materiali organici primitivi, è considerato una capsula del tempo naturale, capace di conservare informazioni preziose sulle origini del Sistema Solare risalenti a oltre 4,6 miliardi di anni fa.
Tra il 2018 e il 2019, Hayabusa 2 ha effettuato una serie di operazioni di prelievo, utilizzando un sofisticato sistema per raccogliere campioni sia dalla superficie che dall’interno dell’asteroide. Il materiale, custodito in una capsula ermetica, è stato rilasciato nello spazio interplanetario e ha raggiunto la Terra nel dicembre 2020, atterrando nel deserto australiano con una precisione impressionante.
Un’analisi dettagliata e rigorosa
I campioni di Ryugu sono stati immediatamente trasferiti in laboratori ultra-sterili, progettati per minimizzare il rischio di contaminazione terrestre. Ogni particella è stata catalogata, analizzata e distribuita a team di ricerca in tutto il mondo, con strumenti altamente avanzati e protocolli rigidissimi. Il lavoro di analisi ha coinvolto scienziati di diverse discipline, tra cui chimica, astrobiologia e scienza planetaria, con l’obiettivo di svelare i segreti nascosti in quei minuscoli frammenti.
Tra i ricercatori coinvolti spiccava Matthew Genge, scienziato planetario dell’Imperial College di Londra. Durante una delle prime analisi al microscopio elettronico a scansione, Genge ha osservato qualcosa di straordinario: un filamento organico dalla forma inconfondibile, simile a un viticcio. Questo ha generato un fermento senza precedenti nella comunità scientifica, spingendo molti a credere che si trattasse di una scoperta rivoluzionaria.
La scoperta che ha acceso le speranze
L’osservazione iniziale di Genge è stata seguita da ulteriori analisi che hanno rivelato la presenza di numerosi altri filamenti organici nei campioni. Questi filamenti sembravano crescere, espandersi e contrarsi in modo simile al ciclo vitale di alcuni microrganismi terrestri. “La scoperta di questi bastoncelli organici ha generato entusiasmo e aspettative enormi,” ha dichiarato Genge, sottolineando come inizialmente sembrasse plausibile l’ipotesi che si trattasse di tracce di vita extraterrestre.
Le condizioni in cui erano stati prelevati e conservati i campioni, unite alla rigorosità dei protocolli seguiti, rendevano improbabile una contaminazione. Inoltre, l’ambiente extraterrestre di Ryugu, caratterizzato da temperature estremamente basse e un’esposizione costante alla radiazione cosmica, sembrava confermare l’autenticità della scoperta.
L’equivoco e la delusione
Tuttavia, un’analisi più approfondita ha svelato una realtà ben diversa. I filamenti osservati nei campioni di Ryugu non erano affatto di origine aliena, bensì il risultato di una contaminazione terrestre. Nonostante le misure straordinarie adottate per preservare l’integrità dei campioni, alcuni microrganismi terrestri erano riusciti a infiltrarsi nel materiale e a colonizzarlo rapidamente. Questi “invasori” avevano trovato nei nutrienti presenti sulla superficie dell’asteroide una fonte di energia ideale, proliferando e crescendo fino a dieci volte le loro dimensioni iniziali.
La ricerca, pubblicata su Meteoritics & Planetary Science con il titolo “Rapid colonization of a space-returned Ryugu sample by terrestrial microorganisms”, ha chiarito la natura dell’equivoco. Come si legge nell’abstract: “La scoperta sottolinea che il biota terrestre può colonizzare rapidamente campioni extraterrestri anche con precauzioni di controllo della contaminazione. La colonizzazione di un campione riportato nello spazio sottolinea che la materia organica extraterrestre può fornire una fonte idonea di energia metabolica per gli organismi eterotrofi sulla Terra e su altri pianeti”.
Lezioni apprese e implicazioni future
Questo episodio, sebbene deludente per le speranze iniziali, ha rappresentato un importante punto di svolta per la ricerca astrobiologica. La rapidità con cui i microbi terrestri hanno colonizzato i campioni di Ryugu offre nuove prospettive sul comportamento della vita in ambienti estremi e sulla possibilità di contaminazione biologica in missioni future.
“Questo caso mette in evidenza l’importanza di sviluppare tecnologie ancora più avanzate per preservare l’integrità dei campioni extraterrestri,” ha affermato Genge. La lezione appresa spinge gli scienziati a ripensare le metodologie di raccolta, trasporto e analisi, al fine di garantire che scoperte future possano essere interpretate con maggiore certezza.
Un futuro di scoperte
Nonostante l’equivoco, i campioni di Ryugu continuano a rappresentare una fonte inesauribile di informazioni. Le analisi in corso stanno già fornendo nuovi dati sulla composizione chimica e isotopica dell’asteroide, contribuendo a migliorare la nostra comprensione delle prime fasi del Sistema Solare. Inoltre, questa esperienza ha evidenziato l’incredibile resilienza della vita terrestre, capace di adattarsi e prosperare anche in condizioni apparentemente inospitali.
Mentre la ricerca prosegue, la missione Hayabusa 2 resta un simbolo dell’ingegno umano e della nostra capacità di esplorare l’ignoto. Ogni nuova scoperta rappresenta un passo avanti verso la comprensione del nostro posto nell’universo e delle possibilità che la vita possa esistere oltre i confini del nostro pianeta.