Scoperte le prime fasi dell’evoluzione del ribosoma all’origine della vita sulla Terra

Un team ha scoperto che l’interazione tra proteine e RNA nel ribosoma primordiale ha prevenuto la degradazione dell’RNA stesso
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La vita, come la conosciamo oggi, si basa sulla connessione tra gli acidi nucleici, che immagazzinano informazioni, le proteine, che svolgono innumerevoli compiti, e i lipidi che formano le membrane circostanti. Queste interazioni tra precursori molecolari iniziarono a verificarsi più di 4 miliardi di anni fa, prima che emergessero le prime forme di vita.

Ora un team interdisciplinare di scienziati dell’Università Statale di Milano, dell’Università Karlova di Praga, dell’Università di Chimica e Tecnologia di Praga e dell’Istituto di Scienze di Tokyo ha condotto una nuova ricerca sul protoribosoma, l’antenato dell’attuale ribosoma, ancora incorporato in esso. I risultati sono stati pubblicati su Nucleic Acids Research

Le cellule contengono i ribosomi, le macchine molecolari che producono le proteine. A causa della loro onnipresenza e dell’elevata conservazione in tutte le forme di vita sulla Terra, sono considerati dai biologi dell’evoluzione la migliore connessione con il nostro passato biologico” spiega Giuliano Zanchetta, docente di Fisica applicata del Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università Statale di Milano e uno degli autori principali dello studio.

Il protoribosoma, una sorta di fossile molecolare, circonda il cosiddetto peptidyl transferase center (PTC), responsabile della formazione del legame peptidico, un processo essenziale nella sintesi proteica. Studi precedenti hanno dimostrato che l’RNA da solo potrebbe svolgere la funzione del PTC. Tuttavia, nella struttura ribosomiale, le “code” di diverse proteine ​​ribosomiali (rPeptidi) si trovano in prossimità del PTC e sono considerate residui delle più antiche specie peptidiche che probabilmente interagivano con il protoribosoma prima che il ribosoma si evolvesse nel complesso RNA-proteine come lo conosciamo oggi. Il ruolo di questi rPeptidi non era stato finora studiato.

Attraverso lo studio di due distinti stadi evolutivi dell’RNA protoribosomiale, i ricercatori hanno rivelato che gli rPeptidi hanno avuto una funzione fondamentale nel guidare la compartimentazione e quindi la stabilità del protoribosoma, proteggendo l’RNA dalla degradazione e permettendone lo sviluppo così come lo si conosce oggi.

I ricercatori hanno infatti studiato due costrutti tra i 100 e i 600 nucleotidi. Il costrutto piccolo è strutturalmente più flessibile: durante la sua interazione poco specifica con gli rPeptidi, si è notato che questi ultimi, in un ampio intervallo di concentrazioni, inducono coacervazione, un processo che porta alla formazione di goccioline liquide concentrate. È questo che protegge l’RNA dalla degradazione. Il costrutto grande, invece, è strutturalmente più definito, come dimostrano le simulazioni atomistiche al computer eseguite presso l’Università di Chimica e Tecnologia di Praga e la coacervazione è meno estesa rispetto al costrutto piccolo.

La formazione spontanea di gocce, che derivano dal processo di interazione dell’RNA con rPeptidi, dipende in modo sottile dalla sequenza e dalla struttura dell’RNA, il che implica che è piuttosto specifica per le particelle ribosomiali. Inoltre, la ricerca suggerisce che l’interazione tra RNA e proteine, ​​prima che emergessero le prime forme di vita, abbia offerto un significativo vantaggio biofisico, soprattutto fornendo compartimentalizzazione e prevenendo la degradazione dell’RNA. Queste prime interazioni RNA-proteine ​​possono essere considerate come precursori delle più complesse relazioni RNA-proteine ​​che sono oggi essenziali per l’integrità strutturale ribosomiale”, spiega Giuliano Zanchetta.

I nostri risultati evidenziano che i peptidi svolgono un ruolo vitale nel guidare la condensazione e nello stabilizzare il protoribosoma. Questo fa luce su come i processi vitali fondamentali potrebbero essere stati protetti e compartimentati in un mondo prebioticoconclude Klára Hlouchová, dell’Università Karlova di Praga, una delle ricercatrici principali dello studio.

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